Tari, i nuovi livelli minimi di servizio cambiano i costi nei piani finanziari

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Tari, i nuovi livelli minimi di servizio cambiano i costi nei piani finanziari

Il Sole 24 Ore

Tari, i nuovi livelli minimi di servizio cambiano i costi nei piani finanziari

Entro il 31 marzo va scelto uno dei quattro livelli di qualità individuati dall’Arera

Nelle 10 Regioni senza ambiti la scelta spetta ai Comuni ma la procedura non è nota

Giuseppe Debenedetto

Parte il nuovo metodo tariffario per la predisposizione dei piani finanziari pluriennali della Tari (Mtr-2), ma il procedimento si annuncia complesso e rischia di bloccarsi anche per le nuove prescrizioni introdotte dall’Arera con la delibera 15/2022 sulla qualità dei servizi.

Con l’istituzione dell’Arera è cambiato radicalmente l’approccio dei Comuni nella predisposizione del piano finanziario per la Tari, all’inizio con il Mtr-1 (delibera 443/2019) e ora con il Mtr-2 adottato con delibera 363/2021 per il 2022-2025.

Inoltre l’attività regolatoria dell’Arera è destinata a incidere sempre più nella gestione del tributo, che dal 2023 sarà interessata da rilevanti modifiche introdotte dal testo unico per la regolazione della qualità del servizio di gestione dei rifiuti (delibera 15/2022).

A complicare ulteriormente lo scenario Tari contribuisce l’entrata in vigore dal 2021 del Dlgs 116/2020, con il quale sono state recepite le direttive Ue del 2018 in materia ambientale, che produce un forte disallineamento della normativa tributaria rispetto al Codice ambientale.

Da quest’anno il Pef ha valenza pluriennale per il 2022-2025 e include variabili di calcolo che tengono conto delle modifiche introdotte dal Dlgs 116/2020 e di ulteriori voci di costo per l’adeguamento ai nuovi standard minimi di qualità. La delibera 15/2022 dell’Arera impone poi dal 2023 una serie di obblighi per i Comuni e richiede agli enti territorialmente competenti (Etc) di scegliere entro il 31 marzo 2022 uno dei quattro livelli di qualità. Scelta che potrebbe avere riflessi anche sui costi da sostenere e da inserire nei Pef.

Si pone però il problema di un’Italia spaccata sul fronte degli Etc, che sono pienamente operativi solo in dieci Regioni (Valle d’Aosta, Liguria, Piemonte, Veneto, Friuli-Venezia Giulia, Emilia-Romagna, Toscana, Umbria, Puglia, Basilicata). Questa situazione incide sul procedimento di approvazione dei piani finanziari, dovendo distinguere i Comuni ubicati in regioni dove non sono istituiti gli Etc (come in Lombardia e in Sardegna), che devono validare i loro Pef, dagli altri Comuni che invece devono inviare i piani agli Etc per la validazione, da recepire con delibera di Consiglio.

Questa distinzione si riflette ora anche sulla scelta del livello di qualità, che in moltissimi casi deve essere effettuata direttamente dai Comuni, i quali non sanno come muoversi sia dal punto di vista procedurale (delibera di consiglio?) sia nel merito dell’opzione, che dovrebbe coinvolgere i singoli gestori del servizio, quindi con una soluzione eterogenea da Comune a Comune.

Peraltro non è detto che la scelta dello schema 1 (livello qualitativo minimo) non comporti la quantificazione di ulteriori costi rispetto agli attuali, se l’ente non rispetta neppure gli standard minimi di questo schema.

Insomma la questione è piuttosto critica, considerato che se il posizionamento di qualità (tra i 4 schemi previsti) comporta ulteriori costi da sopportare, questi dovrebbero essere già indicati nel Pef pluriennale. Si tratta quindi di una scelta propedeutica per la validazione del Pef, per cui è necessario chiarire subito come sciogliere il nodo degli standard qualitativi, senza mandare allo sbando i Comuni.

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