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“Solo il 2% dei materiali biodegradabili torna nel suolo”

ambiente clima suolo agricoltura bioeconomia

David Newman (ECBPI): l’economia lineare continua a vincere. L’impoverimento del suolo mette a rischio la nostra sopravvivenza. Servono investimenti forti sulla bioeconomia. La Commissione europea? Sta facendo molto, nonostante le pressioni delle lobby petrolifere

“Le stime indicano in 100 miliardi di tonnellate i materiali biodegradabili di varia natura prodotti ogni anno. Eppure oggi facciamo tornare nei terreni appena 2 miliardi di tonnellate di quei materiali. Togliamo quindi dal suolo attraverso l’agricoltura i nutrienti, l’humus, le sostanze microbiologiche che servono per far crescere le piante e li sostituiamo con fertilizzanti chimici e pesticidi. Questo modo di agire è molto pericoloso perché rende i terreni aridi e improduttivi. Solo attraverso una restituzione al suolo del materiale biodegradabile che produciamo nelle città possiamo pensare di rigenerararlo e mantenerne la sostanza organica e la sua fertilità”.

David Newman è uno dei massimi esperti di bioeconomia. Direttore generale della European Circular Bioeconomy Policy Initiative, cui aderiscono università, centri di ricerca e aziende europee con un comune obiettivo: stimolare la transizione verso l’economia circolare e rafforzare gli sbocchi di mercato dei materiali biobased. La sua è un’analisi lucida (e per certi versi impietosa) della situazione attuale e di ciò che serve per cambiare le cose.

Dottor Newman, cerchiamo di spiegare prima di tutto una cosa: perché la bioeconomia restituisce salubrità ai terreni?

Viviamo in un mondo in cui la natura vuole che tutto sia circolare. Ciò che entra e ciò che esce dai sistemi devono essere bilanciati. Le azioni dell’uomo negli ultimi 200 anni hanno disturbato questa circolarità naturale con la quale abbiamo vissuto per millenni.

Lo ha fatto attraverso l’urbanizzazione, attraverso la crescita della popolazione umana che ha raggiunto i 7 miliardi di individui. Ciò ha tolto dal suolo quei materiali che, fino ad allora, rimanevano ed erano reintegrati nei terreni. Oggi finiscono negli inceneritori, nelle discariche, nei fiumi, nei mari. Attualmente solo il 2% di tutti quei materiali biodegradabili che generiamo come comunità umana ritorna al suolo. Finora abbiamo pensato di risolvere con fertilizzanti e pesticidi. Ma con la chimica non puoi risolvere il problema. Lo devi fare con l’uso di materiali naturali che noi produciamo in abbondanza ma che non riportiamo nel suolo. Allo stesso tempo, con questo sistema possiamo usare questi terreni come fornitori di materiali da impiegare in questa circolarità delle biomasse.

Penso alle bioplastiche, alla biochimica: attraverso l’agricoltura possiamo creare materiali che poi a fine vita restituiremo ai terreni. Questo approccio è fondamentale ma l’abbiamo dimenticato per molto tempo. Ci siamo illusi che la chimica dei fertilizzanti potesse risolvere tutti i nostri problemi. Solo oggi ci stiamo rendendo conto che abbiamo invece causato grandi problemi.

La transizione verso la bioeconomia però è un fenomeno intersettoriale. I diversi comparti produttivi e le aziende sono preparate a questo salto che è prima di tutto un cambio di approccio culturale?

Assolutamente no. Se fossero pronte e attive non saremmo in questa situazione preoccupante. Sono rari gli esempi di imprese conscie delle opportunità di questa circolarità delle biomasse. Prendiamo il caso dell’Inghilterra, dove sono oggi: le grandi società che gestiscono i rifiuti vogliono continuare a bruciare queste biomasse. Non vogliono restituirle al suolo, creando carbonio che potremmo sequestrare nel suolo per creare materia organica. Loro vogliono invece energia e CO2 dai rifiuti. E ciò accelera il cambiamento climatico già in corso.

Perché accade tutto questo?

Perché ancora oggi è molto più profittevole bruciare biomasse anziché recuperarle e restituirle al suolo. Il sistema è tarato e abituato da 2 secoli ad essere lineare. La linearità vince alla grande: noi parliamo tanto di circolarità ma la linearità aumenta. Anzi, la percentuale di attività economiche che praticano attività circolari è in diminuzione. In totale contrasto con le tante belle cose che noi affermiamo. Mantenere l’economia lineare è ancora oggi più vantaggioso.

Occorrono 2000 anni per formare 10 cm di suolo

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Da ciò che afferma, appare chiaro che servono buone leggi che favoriscano la transizione verso la bioeconomia. Da questo punto, di vista l’Unione europea sta andando nella direzione giusta?

Dobbiamo spezzare una lancia in favore dell’Unione europea: noi critichiamo tante volte l’Ue perché veniamo da un background di ambientalisti. Vorremmo che le attività governative nazionali e continentali si muovessero più velocemente. Non ci rendiamo conto delle pressioni che ricevono dall’altra parte. La capacità di pressione delle società petrolifere è migliaia di volte superiore a quella degli ambientalisti e dei soggetti dell’economia circolare. Stesso dicasi per le risorse economiche a disposizione da destinare a lobbisti che puntano a mantenere i livelli attuali di produzione della plastica, sia dell’uso di fonti fossili per l’energia. A volte non comprendiamo la difficoltà di muoversi più velocemente.

Si è dotato di una strategia per la bioeconomia, per l’economia circolare, abbiamo fondi ingenti che sostengono questi obiettivi. Siamo frustrati perché implementare queste strategie è un processo lungo, lento, pieno di compromessi e non sempre coerente con gli obiettivi fissati inizialmente da Commissione e Parlamento europeo. Siamo in una democrazia: gli esiti non sono sempre al 100% quelli che noi desideriamo. A volte gli altri vincono. Quindi tanto di cappello agli organismi europei per quanto già oggi riescono a fare, anche se ci rendiamo conto che l’emergenza climatica richiede di muoverci molto più velocemente

La European Circular Bioeconomy Policy Initiative di cui lei è direttore generale che cosa chiede quindi a Bruxelles e agli stati nazionali perché lo sviluppo della bioeconomia sia più effiace e rapido?

Noi dobbiamo innanzitutto di smettere di volere la crescita a tutti i costi. Smettiamo di pensare che la crescita del PIL è l’unico elemento da considerare per valutare lo stato di salute dell’economia. Dobbiamo invece abbracciare un modello di sviluppo che abbia al centro la bioeconomia e che abbia a cuore la salute dell’ambiente, degli esseri umani e degli altre specie viventi sul pianeta.

L’economia sana è basata su principi sani di salubrità e di benessere sia degli esseri umani e delle altre specie animali sia dell’ambiente circostante. Alla base di tutto questo c’è il suolo. Scusa il gioco di parole ma è proprio il suolo l’elemento del capitale naturale su cui parte tutto il resto.

Il 95% di tutto il nostro cibo proviene dal suolo, le acque che beviamo sono filtrate dal suolo, la biodiversità dei terreni è superiore a quella di qualsiasi altro tipo di elemento. Proteggere il suolo e rigenerarlo è assolutamente fondamentale per la nostra sopravvivenza come specie umana.

C’è poi la questione climatica: assorbendo carbonio nel suolo, riusciamo ad abbattere l’impatto delle emissioni. I messaggi sono chiari. Sugli strumenti per raggiungere gli obiettivi si può discuterne. Molti non hanno problemi con i principi. Entrando nel dettaglio, molti propongono però percorsi diversi. Questa è l’arte del compromesso, l’arte del negoziato, il cuore del processo democratico. È duro, lungo, complicato ma non c’è alternativa.

Fame invisibile per 2 miliardi di persone. Il degrado del suolo genera una perdita di micronutrienti essenziali. Immagine: FAO 2015. Creative Commons 3.0 Intergovernmental Organization (IGO)

Fame invisibile per 2 miliardi di persone. Il degrado del suolo genera una perdita di micronutrienti essenziali. Immagine: FAO 2015. Creative Commons 3.0 Intergovernmental Organization (IGO)

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