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Rifiuti speciali, Arpat: la carenza d’impianti comporta export e aumento dell’illegalità

Greenreport

L’analisi dell’ultimo rapporto Ispra da parte dell’Agenzia regionale per protezione ambientale della Toscana

Rifiuti speciali, Arpat: la carenza d’impianti comporta export e aumento dell’illegalità

«I rifiuti speciali, quelli che provengono dalle attività produttive, sono “invisibili” perché a differenza degli urbani non passano dalle nostre mani ma sono 10-12 volte di più»

Nell’Unione Europea a 28 (UE28) vengono prodotti, ogni anno, 2,5 miliardi di tonnellate di rifiuti, di questi circa il 10% (248,3 milioni di tonnellate) sono rifiuti urbani, il resto rifiuti speciali (non pericolosi e pericolosi). Nonostante la quantità, sono rifiuti invisibili, non li vediamo, non li tocchiamo ma sono il frutto di tutti quei processi produttivi per la creazione di beni di cui ci serviamo ogni giorno, come i tablet, per costruirne uno si producono circa 90 kg di rifiuti speciali, mentre per un jeans circa 25-30 kg.

Nel nostro Paese, la produzione di rifiuti speciali si attesta a 154 milioni di tonnellate, in base ai dati contenuti nel rapporto rifiuti speciali pubblicato, di recente, da ISPRA e riferito al 2019, con un aumento della produzione totale, tra il 2018 e il 2019, pari al 7,3%, che corrisponde a circa 10,5 milioni di tonnellate.

L’incremento registrato è quasi del tutto imputabile ai rifiuti non pericolosi, che rappresentano la quasi totalità dei rifiuti speciali prodotti. I dati dei prossimi anni ci mostreranno, presumibilmente, scenari diversi, visto che risentiranno del periodo di fermo dovuto alla Pandemia.

Al Nord se ne producono di più, 88 milioni di tonnellate (57,6% del dato complessivo nazionale), per lo più in quelle regioni che trainano l’economia nazionale, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Piemonte. Segue il Sud, con più di 38 milioni di tonnellate, (24,9%), e chiude il Centro con 27 milioni di tonnellate (17,5% del totale).

Tra i rifiuti speciali spiccano quelli da costruzioni e demolizione, che sono oltre 70 milioni di tonnellate, circa 45,5% del totale prodotto, seguiti da quelli che scaturiscono dal trattamento dei rifiuti e risanamento ambientale (25,1% pari a 38,6 milioni di tonnellate). Le altre attività economiche contribuiscono, complessivamente, alla produzione di rifiuti speciali con una percentuale pari al 10,5% (16,1 milioni di tonnellate).

Se guardiamo ai rifiuti speciali pericolosi, quelli che, in assoluto, destano le maggiori preoccupazioni ed i maggiori interrogativi soprattutto nell’opinione pubblica, vediamo dal rapporto che il settore manifatturiero è quello che produce il 37% del totale dei rifiuti speciali pericolosi, corrispondente a circa 3,8 milioni di tonnellate.

Il 32,6% è attribuibile alle attività di trattamento rifiuti e di risanamento ambientale, pari a 3,3 milioni di tonnellate; segue il settore dei servizi, del commercio e dei trasporti (20,5%) con quasi 2,1 milioni di tonnellate, di cui oltre 1,5 milioni di tonnellate di veicoli fuori uso.

A fronte di una tale mole di rifiuti speciali, c’è da chiedersi se sia possibile ridurli, visto che la normativa europea ma anche nazionale, nella gerarchia dei rifiuti, pone al primo posto la prevenzione seguita dalla preparazione per il riutilizzo, dal recupero di materia e energia e solo in ultima posizione lo smaltimento. I primi due livelli della scala gerarchica sono quelli a cui è necessario tendere, prima tra tutti, la prevenzione, che significa sia ridurre la quantità di rifiuti ma anche la loro pericolosità.

Per i rifiuti speciali risulta piuttosto difficile, al momento, attuare una politica di prevenzione, perché questa categoria di rifiuti sono il frutto di filiere industriali molto diverse e per realizzare un efficace piano di riduzione è necessario conoscere la singola filiera di produzione e lo specifico rifiuto industriale che viene prodotto.

Per fare fronte a questo problema, le istituzione europee e nazionali si stanno attrezzando; l’Unione Europea (UE) punta sulle best available technologies -BAT- , lavorando su ogni singola filiera produttiva e fornendo indicazioni utili per andare nella direzione dello sviluppo sostenibile, che racchiude in sé tre elementi essenziali: ambiente, economia e società.

Il neo-nato MiTE, ovvero il Ministero della Transizione Ecologica, da parte sua, ha da poco acquisito importanti competenze, prima attribuite al MiSE – Ministero dello sviluppo economico – questo potrà aiutare nel definire la politica, la direzione, da intraprendere per ridurre e gestire al meglio i rifiuti, anche quelli speciali. Un ulteriore passo potrà essere fatto con il Programma nazionale per la gestione dei rifiuti, richiamato dall’art. 198 bis del Testo Unico Ambientale, che, quando sarà operativo, fornirà indicazioni precise, che, in parte, le singole Regioni dovranno declinare a livello territoriale mentre altre decisioni verranno prese a livello centrale.

Se si vuole ridurre la quantità di rifiuti prodotta, è ormai opinione condivisa che bisogna puntare all’ecodesign, ovvero la progettazione ecologica dei prodotti, che tiene conto di tutto il ciclo di vita del prodotto, compreso il momento in cui i beni si trasformano in rifiuti. Questa sarà la vera frontiera da raggiungere, superando, così, le attuali politiche di riduzione che hanno come unico fulcro le ecotasse, i rifiuti che finiscono in discarica costituiscono un costo, sono soggetti ad un tributo e questo rappresenta un disincentivo alla produzione massiccia di rifiuti, ma, è certo che non basta.

Al momento, però, non abbiamo ancora una normativa sulla progettazione ecologica (ecodesign) dei beni e quindi è più difficile incidere sulla prevenzione. Si stanno facendo alcuni sforzi per incidere su alcune tipologie di rifiuti speciali, come quelli da demolizione e costruzione che rappresentano, al momento, il quantitativo maggiore di rifiuti speciali prodotti. In questo caso, a monte, va fatta una demolizione “intelligente” o “selettiva”, basata sulla differenziazione dei vari materiali in fase di cantiere.

Un’altra strada da intraprendere per la migliore gestione dei rifiuti è quella delineata dall’economia circolare, che spinge sempre di più a privilegiare la preparazione per il riutilizzo e il recupero di materia, come indica lo stesso art. 179 del Testo Unico Ambientale. Anche in questo caso, non si potrà fare a meno dell’ecodesign, che renderà “praticabile” dal punto di vista economico realizzare alcuni operazioni sui rifiuti, come spiega la Fondazione Ellen MacArthur nel suo rapporto “The circular economy: a transformative Covid-19 recovery strategy“.

Altra importante misura da adottare, più a largo raggio di quanto attualmente venga fatto, è quella dell’estensione della responsabilità del produttore (EPR). Il sistema è quello già in uso, ad esempio, per i rifiuti elettrici e elettronici (RAEE) dove il produttore si prende la responsabilità di gestire il fine vita del prodotto.

Uno dei settori in cui, nel prossimo futuro, potrebbe essere applicato l’EPR è quello dei rifiuti tessili.

Questo comporta che il bene sia caricato da un costo aggiuntivo, accantonato per gestire quel prodotto al momento che sarà divenuto un rifiuto, nel suo fine vita. Questo “surplus” economico è a carico del consumatore, per questo è fondamentale che ognuno sia più consapevole e responsabile nelle scelte di consumo. In poche parole, il consumatore dovrà pretendere di sapere come i suoi soldi sono stati spesi, non si può e non si potrà, infatti, accettare di dare una somma di denaro affinché il proprio rifiuto sia gestito correttamente e poi sapere che viene esportato in un paese terzo dove finisce bruciato o sotterrato o gestito senza il rispetto delle norme di tutela dei lavoratori e lavoratrici e di quelle di protezione dell’ambiente.

Tutto questo richiede che le aziende si mostrino più trasparenti, in generale, e specificatamente nella gestione di questo denaro “accantonato” per una specifica finalità, che non può trasformarsi in una facile fonte di profitto per le imprese.

Tornando, invece, ai dati del rapporto rifiuti speciali di Ispra, per quanto riguarda la gestione, si evince che quasi il 70% viene destinato a recupero di materia, quindi i rifiuti speciali sono riutilizzati, cioè si ha un riuso della stessa sostanza/prodotto oppure un riciclo, ovvero il rifiuto viene sottoposto ad alcuni trattamenti (es. smembramento, triturazione, macinazione ecc) per dare vita ad una materia prima seconda. L’1,7% viene incenerito, circa il 7% finisce in discarica mentre il 9,5% subisce altri trattamenti e la restante parte viene messo in riserva o stoccato temporaneamente.

Il rapporto di Ispra riporta anche il numero degli impianti di gestione rifiuti, che a livello nazionale mancano, in particolare, diminuiscono le discariche, soprattutto quelle che accolgono i rifiuti speciali pericolosi; in Italia ne rimangono 10.

La carenza di impianti di gestione di rifiuti comporta, in genere, due importanti “effetti collaterali”:

– l’esportazione dei rifiuti verso paesi terzi, non sempre adeguatamente attrezzati per gestirli in modo corretto, con conseguenti danni per chi lavora in queste strutture e per l’ambiente

– l’aumento, anche a livello nazionale, dell’ illegalità che gravita intorno al mondo dei rifiuti.

Per quanto riguarda, infine, l’import e export dei rifiuti speciali, una parte vengono esportati in altri paesi, ma il bilancio tra import/export, nel nostro Paese, pende verso l’importazione, ovvero in Italia importiamo molti più rifiuti di quelli che esportiamo. La quantità totale di rifiuti speciali esportata è pari a oltre 3,9 milioni di tonnellate, a fronte di una importazione di oltre 7 milioni di tonnellate.

di Agenzia regionale per protezione ambientale della Toscana (Arpat)

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