Il Sole 24 Ore
Rifiuti: investimenti in salita dell’8% Ora la sfida del Pnrr
Settore resiliente al Covid: lo sforzo maggiore riguarda il Nord, mentre il Sud arretra
Celestina Dominelli
ROMA
Sullo sfondo il Recovery Plan che assegna 2,1 miliardi al miglioramento della capacità di gestione dei rifiuti, pari a 4/5 volte gli investimenti annui delle imprese del settore. Che hanno mostrato una particolare resistenza di fronte alla crisi pandemica tanto che nel 2020 sono aumentati sia l’impegno finanziario sia il valore della produzione. E il comparto ha spinto più che in passato sulle operazioni straordinarie. È un quadro estremamente vivace quello tratteggiato dal rapporto “Rifiuti urbani e speciali, l’evoluzione del settore italiano del waste management”, curato da Alessandro Marangoni, ceo di Althesys, società specializzata nella consulenza strategica e nello sviluppo di conoscenze, nonché capo del think tank Waste Strategy, che sarà presentato oggi al Was Annual Report, passaggio obbligato per chi vuole conoscere l’evoluzione del waste management e del riciclo.
Un settore resiliente
Il settore dei rifiuti si è mostrato dunque resiliente nonostante l’emergenza sanitaria e le maggiori criticità. Basta guardare, suggerisce il report, i numeri del valore della produzione dei maggiori 124 player della raccolta, trattamento e/o smaltimento dei rifiuti urbani (9,6 miliardi, +1,9%). E salgono anche gli investimenti, che sono passati dai 497,7 milioni del 2019 ai 538,5 milioni dello scorso anno (+8,2%), con le piccole e medie multiutility ad aver registrato l’aumento più consistente (+54,1%) e con la maggior parte dello sforzo concentrato sulla componente impiantistica (circa il 61% dell’impegno complessivo). Quanto alla ripartizione geografica, il responso è chiarissimo: le iniziative hanno riguardato in particolare il Nord Italia (81,6% rispetto al 75% del 2019), mentre fanalino di coda è il Sud che ha perso decisamente terreno (dal 7,5% al 2,2%).
La spinta sul consolidamento
Fin qui il perimetro del settore che, più di quanto accaduto in passato, sta provando ad accelerare sul consolidamento, anche se il tessuto complessivo rimane contraddistinto da Pmi diffuse sul territorio. Dopo tre anni in diminuzione, dunque, sono aumentate le operazioni straordinarie con la fetta principale caratterizzata dall’espansione in nuove attività (43%), seguita dalle aggregazioni (28,5%) e, al 9,5% ciascuna, da altre tre tipologie (riorganizzazioni societarie, collaborazioni strategiche e investimenti in impianti). E qui a primeggiare non è il Nord, che pure ha segnato il passo su investimenti&co, ma il Centro Italia, per la prima volta più dinamico rispetto ad altre zone con il 50% dei deal. Che vedono comunque protagoniste le grandi utility. Ma è il mercato tutto a risultare in movimento, anche rispetto alla scelta della strategia. «Innovazione tecnologica, crescita dimensionale e convergenza tra business diversi, sia all’interno che all’esterno del comparto utility, caratterizzeranno sempre di più le future dinamiche di sviluppo dell’industria del waste management e del riciclo», osserva Marangoni.
La sfida del Recovery Plan
Nell’immediato, però, le aziende del settore devono affrontare (e vincere) la sfida del Pnrr. Che, come detto, assegna 2,1 miliardi di euro per migliorare la capacità complessiva del sistema ripartiti tra 1,5 miliardi per la parte impiantistica e 600 milioni per la realizzazione di progetti faro dell’economia circolare su alcune filiere strategiche. Il ministero della Transizione Ecologica ha già emanato i due decreti e i relativi bandi. Ma ora, raccomanda il rapporto, bisognerà seguire con grande attenzione la scelta delle iniziative e la capacità di realizzarle, così come alcuni tasselli che ne potrebbero condizionare l’efficacia. Il documento ne cita diversi: dalla necessità di privilegiare un principio di neutralità tecnologica sul fronte dei progetti faro, per non escludere a priori determinate soluzioni, all’importanza della capacità progettuale e attuativa dei proponenti, che va attentamente considerata, fino alle possibili distorsioni nel mercato. Perché, assegnando i finanziamenti agli enti di governo degli Ato (Egato), e, in loro assenza, ai Comuni, si corre il pericolo di penalizzare le aziende private visto che la maggior parte dei player ha proprietà pubblica o mista. Con il rischio, chiosa lo studio, «che i Comuni non abbiano le stesse competenze e imprenditorialità delle aziende private, con impatti sulla realizzazione degli impianti».