Corriere della Sera
Plastica monouso addio Anche se biodegradabile
di Domenico Affinito e Milena Gabanelli
Dal 3 luglio la UE vieta l’uso di tutti i tipi di polimeri per nove prodotti usa e getta. l’Italia, primo paese europeo ad aver investito nei materiali innovativi , ora rischia posti di lavoro
La plastica non è il diavolo. Da quando è stata introdotta, a fine ‘800, ci ha semplificato la vita, e in alcuni casi pure salvata, basti pensare alle sue applicazioni sanitarie: dagli stent alle valvole cardiache, dalle siringhe alle sacche per il sangue, alle protesi. Il diavolo siamo noi. Ogni anno finiscono nel mare, in tutto il mondo, 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici: boe, reti, sacchetti, bottiglie. Il 70% si deposita sui fondali, il resto rimane in superficie dove le correnti formano grandi isole. La più famosa, grande quanto la Spagna, si trova nell’Oceano Pacifico, ma ce ne sono al largo delle coste del Cile e Peru, fra l’America del Sud e l’Africa meridionale, nell’Oceano Indiano, nel Mare Artico, e una si sta formando tra l’Elba e la Corsica. Negli oceani la plastica non sparisce mai, perché nulla la conserva meglio dell’ambiente marino. Che si altera. Infine diventano particelle così piccole da mescolarsi al plancton, entrano nella catena alimentare, e la plastica ci ritorna nel piatto. Piatti e bicchieri abbandonati sulle spiagge di tutto il mondo sono il 3,1% del totale dei rifiuti, il 17,3% gli imballaggi alimentari, il 17,1% cannucce, il 9,2% posate.
La nuova legge Ue
Matura in questo clima di allarme ambientale la direttiva Ue 904 del 2019: visto che non sappiamo gestire l’usa e getta in modo civile, per prevenire e ridurre l’impatto della plastica nei mari e sulle spiagge europee, bisogna vietare il materiale con cui questi oggetti vengono fatti. A partire dal 3 luglio di quest’anno posate, piatti, cannucce, bastoncini cotonati, agitatori per bevande, aste per i palloncini e contenitori per alimenti non potranno più essere realizzati in plastica, anche quelle biodegradabili. Le tappe della normativa sono state serrate. A dicembre 2015 la Commissione europea adotta un piano d’azione, nel 2018 lancia la strategia per ridurre l’inquinamento da plastica monouso che l’anno dopo porta alla direttiva in vigore oggi, votata dai rappresentanti di tutti gli Stati membri. Ma perché l’Europa dice «no» anche alle plastiche biodegradabili?
Cosa sono le bioplastiche
Punto primo: cosa si può definire bioplastica? Cnr e Iupac da anni sono molto chiari: si possono definire tali le plastiche ottenute con materiali biodegradabili e compostabili. E a rendere un elemento biodegradabile non è tanto la materia prima di cui è costituito, quanto la sua struttura chimica, poiché l’impatto ambientale di un determinato materiale è strettamente legato al tempo che impiega per biodegradarsi. Ci sono quindi due tipi di bioplastiche: 1) quelle che derivano da una miscela formata da acido lattico, amido (di mais, frumento, patate, riso) e scarti della lavorazione del petrolio; 2) quelle che derivano da microrganismi alimentati con zuccheri o lipidi. Gli oggetti monouso più comuni prodotti con questo tipo di materiale sono i sacchetti per la spesa, per l’umido, teli agricoli, sacchetti ultraleggeri, bicchieri, film per imballaggi, per alimenti, posate. L’Italia produce il 66% di tutta la plastica biodegradabile d’Europa.
«Verde» non è bio
La confusione nasce anche dall’Associazione Europea per le bioplastiche, che definisce bioplastica ciò che deriva da fonte rinnovabile, anche se non è biodegradabile. E così sono entrati nel calderone anche il polietilene e Pet, che derivano in tutto o in parte dal bioetanolo, prodotto per fermentazione di alcune specie vegetali, ma quasi sempre non si degradano per nulla. Hanno una applicazione infinita: dalle bottiglie per l’acqua minerale ai contenitori per alimenti, posate. Rappresentano il 24% della produzione non tradizionale, ma definirle «bio» è green business ingannevole, scrive il Cnr nella sua relazione al Senato, perché induce il consumatore a pensare che si degradino e quindi ad essere meno attento. Attualmente non esiste infatti nessuna norma che precisi l’etichettatura ambientale di una bioplastica, salvo l’eccezione di quella «biodegradabile e compostabile».
Cos’è la biodegradazione
È un processo naturale che può richiedere centinaia di anni, dipende dal tipo di materiale e dall’ambiente. Per la compostabilità delle plastiche bio esiste una normativa europea: è la Uni EN 13432, che prevede la biodegradazione in 90 giorni. Ma questo succede solo negli impianti di compostaggio dove ci sono determinate concentrazioni di batteri e temperature elevate. In ambiente domestico invece, queste plastiche devono potersi degradare entro 12 mesi. Se finiscono in ambiente marino la storia si complica: cambiano le condizioni di temperatura, presenza di ossigeno, carica batterica, e non è possibile determinarne la durata. Certo, se i cittadini differenziassero la plastica in maniera corretta il problema non si porrebbe; ma siccome così non è, il Parlamento europeo e il Consiglio hanno deciso di aggredire il problema a monte, vietandone l’uso per alcuni prodotti.
Un duro colpo
Gli Stati avevano due anni per organizzarsi ma l’Italia, che da sola ha il 60% del mercato europeo dell’usa e getta, ha temporeggiato, e il 7 giugno, quando sono state pubblicate le linee guida, è saltata sulla sedia. Da anni investiamo nella plastica biodegradabile e compostabile, siamo l’unico paese europeo a farlo, ed ora rischiamo di perdere posti di lavoro. Le aziende coinvolte sono 280 aziende, 2.780 addetti, e un fatturato annuo di 815 milioni di euro. Non a caso siamo stati i primi in Europa nel 2012 a introdurre gli shopper compostabili, biodegradabili in 6 mesi. Ebbene, in questi due anni politica e imprese anziché fare fronte comune nelle trattative, coinvolgendo anche altri Stati, ognuna è andata avanti a difendere la propria di plastica: chi la fa col petrolio, chi con il bioetanolo, chi la fa biodegradabile, sperando in una proroga o una deroga. Che non c’è stata.
Come proteggi la carta?
La direttiva ammette solo prodotti fatti con i polimeri non modificati: cioè quelli naturali, come la cellulosa. Ma se in un contenitore di carta ci metto thè o caffè, con cosa lo faccio lo strato protettivo? Andranno bene le laccature, che di naturale non hanno niente, mentre i materiali supertestati fatti con gli amidi non sono stati considerati nelle linee guida. Sta di fatto che ora, in corsa, l’Italia ha chiesto, per piatti e bicchieri, di poter accoppiare alla carta un sottile strato di plastica. Non abbiamo specificato quale tipo di plastica, perché tanto la direttiva non fa distinzione fra quella che si degrada e quella eterna. La Commissione, che sembra orientata a concederci questo accoppiamento, si esprimerà a giorni.
Le prossime tappe
La sostituzione dei materiali, però, da sola non risolve il problema. In vista delle prossime tappe occorre ridurre il gigantesco consumo di usa e getta, e costruire filiere che nell’ambiente lasciano il meno possibile. Dal 2024 i produttori dovranno farsi carico del costo delle attività di raccolta e di pulizia per quanto riguarda contenitori per caffè, cibo da asporto pronto al consumo, filtri di sigarette (l’acetato di cellulosa di degrada molto lentamente), palloncini, reti da pesca, salviette umidificate. Entro il 2026 dovremo sostituire i tappi in plastica per le confezioni di bevande; entro il 2025 riciclare almeno il 77% delle bottiglie di plastica e il 90% al 2029. Va detto che per quel che riguarda gli imballaggi di plastica l’Italia ricicla il 47%, contro il 30% della media europea. La percentuale non è uniforme ovviamente, abbiamo comuni non pervenuti, e altri che arrivano già al 90%, e dove la Tarsu è stata abbassata. Proprio perché tutta la filiera è costruita attorno a prodotti realizzati con una materia prima compostabile, e che alla fine ritorna in natura come fertilizzante, o si trasforma in energia negli impianti più moderni di biogas.