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Partecipate pubbliche per lo sviluppo sostenibile? Il caso Iren

Nell’anno segnato dalla pandemia sono arrivati investimenti da oltre 630 milioni di euro, acquisizioni per altri 200 milioni e 500 nuovi assunti tra il personale

Nel suo ultimo report l’Istat testimonia che le aziende partecipate pubbliche, al contrario della vulgata che le vuole sinonimo d’inefficienza, già oggi possano rappresentare un modello di successo industriale con performance – ad esempio in termini di valore aggiunto – ben migliori di quelle medie di mercato. C’è da interrogarsi piuttosto se queste aziende possano e sappiano diventare anche dei vettori per lo sviluppo sostenibile del Paese, a partire da qui servizi pubblici (come acqua, gestione rifiuti, energia, trasporti) che durante la pandemia hanno dimostrato una volta di più tutta la loro essenzialità.

Una parziale risposta arriva dal resoconto fornito dal gruppo Iren alla fine di un anno particolarmente critico. La partecipata a maggioranza pubblica registra, nel 2020 segnato dalla pandemia, investimenti stimati in misura pari a oltre 630 milioni di euro (quasi raddoppiati rispetto ai 330 del 2017) e prevalentemente in attività legate alla sostenibilità nella logica della “multicircle economy” definita nel relativo piano industriale, che prevede entro il 2025 investimenti per circa 3,7 miliardi (+12% rispetto al precedente piano industriale).

Nel 2020 l’azienda ha realizzato inoltre importanti operazioni di M&A per circa 200 milioni di euro in particolare per l’acquisizione di Unieco ambiente e I.Blu, realtà che permettono adesso al gruppo un posizionamento primario nel trattamento dei rifiuti speciali e urbani anche in regioni come la Toscana.

Importanti anche i riflessi occupazionali: il 2020 ha confermato anzi il trend positivo delle assunzioni da parte di Iren che si stimano in circa 500 sul territorio nazionale, il 55% dei quali sotto i 30 anni di età, a conferma del forte ricambio generazionale avviato all’interno dell’azienda.

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