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Packaging, l’Italia difende i primati

Il Sole 24 Ore

Packaging, l’Italia difende i primati

Lo scenario. Il prossimo 30 novembre la nuova proposta di regolamento Ue sugli imballaggi che allarma le imprese italiane debutta all’Europarlamento. 

Nel nostro Paese il settore svetta per le quote di riciclo e riutilizzo che superano gli obiettivi fissati da Bruxelles

Pagina a cura di Natascia Ronchetti

Nel mondo del packaging nazionale si stanno affermando alcune grandi tendenze. Sul fronte dei costruttori di macchine per il confezionamento si procede verso una ottimizzazione dei consumi, su quello dei produttori di materiali si corre verso un uso maggiore di quelli flessibili al posto di quelli rigidi. Tutto sullo sfondo di un Paese che ha già raggiunto gli obiettivi europei, con una quota di riciclo degli imballaggi pari al 73,3%. Ma anche della partita che si sta giocando a Bruxelles, con un nuovo regolamento (approderà all’esame del Parlamento europeo il 30 novembre) basato sul cauzionamento (per ogni prodotto è prevista una cauzione che viene rimborsata al consumatore quando restituisce il contenitore). «Un modello ispirato a quello utilizzato soprattutto nei Paesi del Nord Europa che allarma le imprese italiane», dice Luca Ruini, presidente del Conai, il consorzio privato che è lo strumento attraverso il quale i produttori e gli utilizzatori di imballaggi garantiscono riciclo e recupero. «Dovrebbe essere affiancato a quello utilizzato da noi ma con un costo di oltre due miliardi e il rischio di gravi ripercussioni sulla filiera del riciclo», prosegue Ruini. Una criticità alla quale se ne aggiungono altre. «Il mercato impone scelte e orientamenti ai quali corrisponde una risposta da parte del legislatore e da parte delle imprese», afferma Gian Paolo Crasta, direttore esecutivo di Ucima, l’associazione a cui fa capo l’industria delle macchine per il packaging, settore in crescita che ha superato l’anno scorso gli 8 miliardi di fatturato. «Ma c’è la consapevolezza – prosegue Crasta – che questa risposta può anche non essere adeguata. Se vogliamo sostituire la plastica con la carta dobbiamo sapere che nel mondo, di quest’ultima, non disponiamo di una quantità sufficiente a soddisfare la domanda e che per l’approvvigionamento potremmo essere costretti a rivolgerci a Paesi dove non esiste la stessa attenzione per l’ambiente che si è sviluppata in Europa». Resta il fatto che l’Italia svetta nel continente con molti primati, come dimostra l’ultimo rapporto sul riciclo della Fondazione per lo sviluppo sostenibile e della Fise Unicircular. Il riutilizzo della carta, nel 2020, ha superato gli obiettivi fissati da Bruxelles per il 2025: il riciclo ha raggiunto infatti l’87% del totale degli imballaggi immessi al consumo, che nello stesso anno sono stati oltre 4,6 milioni di tonnellate. E il trend è in crescita, dato che questa percentuale nel 2018 era pari all’80%. I risultati italiani sono da record anche nel recupero del vetro. Sempre nel 2020 il tasso di riciclo ha raggiunto in questo caso il 79% del totale dell’immesso al consumo (e nel 2016 era pari al 71%). Per quanto riguarda la plastica, inoltre (quella usata per il confezionamento costituisce quasi il 40% del prodotto trasformato), il riciclo è quasi totale, è arrivato a quota 93%. L’investimento delle imprese del packaging nell’innovazione – ricerca di nuovi materiali e di nuovi macchinari – è continuo. E lo conferma anche il protocollo di intesa sottoscritto da Ucima con Unionfood (a cui fa capo l’industria alimentare) e con Giflex, l’associazione che raccoglie i produttori di imballaggi flessibili. Un accordo che ha l’obiettivo di individuare best practices di filiera. «L’idea di base – spiega Alberto Palaveri, presidente di Giflex (40 aziende per un fatturato di 3,5 miliardi e 15 mila addetti) – è quella di individuare materiali più facilmente riciclabili condividendo le informazioni tra i vari settori per accelerare l’immissione sul mercato di nuovi pack». Da qui la decisione di costituire gruppi di lavoro per capire cosa è più consono al riciclatore con costi sostenibili e di avviare un confronto con il governo per un sostegno agli investimenti per la sostenibilità. «Oggi siamo in grado di imballare il 50% dei prodotti con il 15% del materiale – aggiunge Palaveri – e più dell’80% dei nostri imballi sono riciclabili». Non solo i colossi del food, con i loro marchi, ma anche la grande distribuzione organizzata ha un ruolo rilevante nel trainare le imprese verso il green, verso uno spostamento sulla carta che ormai si sta imponendo. Questo nonostante anche per l’alluminio, destinato soprattutto ai prodotti alimentari, i dati italiani siano soddisfacenti: la percentuale di riciclo è arrivata al 69% e la contrazione di tre punti rispetto al 2016 è riconducibile solo alla crisi economica e industriale determinata dalla pandemia. Resta il problema dei costi. Un imballaggio flessibile incide sul costo finale del prodotto per un 5%, i nuovi materiali sempre più green sono maggiormente costosi di quelli tradizionali e il consumatore, come osserva Crasta, «cerca prodotti altamente sostenibili ma non sempre è disposto a pagare di più per un prodotto con un packaging a basso impatto ambientale». E così come si riscontra la questione del prezzo, le industrie del settore rilevano la difficoltà di confrontarsi con un sistema normativo, tra legislazione europea e legislazione nazionale, ancora un po’ confuso. «Non è facile capire cosa vogliono le istituzioni», ammette Palaveri. Senza contare che il Mezzogiorno è ancora distante dal Settentrione per capacità di riciclo: il 63% del recupero dei rifiuti avviene nelle regioni del Nord. 

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