Greenreport
Ref ricerche: gli altri maggiori Paesi europei fanno meglio
In Italia un terzo dei rifiuti delle attività economiche deriva dal trattamento di altri rifiuti
Ampio ricorso a forme di trattamento intermedie nel ciclo di gestione, senza avere sul territorio gli impianti per chiuderlo
Di Luca Aterini
I rifiuti urbani, quelli che generiamo ogni giorno nelle nostre case e che siamo chiamati a raccogliere in modo differenziato, assorbono la quasi totalità della pubblica attenzione ma sono solo una piccola frazione di tutti i rifiuti che produciamo.
Un nuovo studio appena pubblicato dal laboratorio Ref ricerche torna ad accendere la luce sul resto: nel 2018 la produzione nazionale di rifiuti complessiva ha raggiunto i 172 milioni di tonnellate, ma quelle di origine domestica sono solo 30. Il resto è composto da «rifiuti minerali» (60 mln ton) e rifiuti delle «attività economiche», pari ad altre 82 mln ton.
«Di questa quantità – spiega il Ref ricerche – metà proviene dalla gestione delle acque e degli stessi rifiuti, che totalizzano 40,9 milioni di tonnellate di produzione. Seguono, a distanza, i rifiuti delle attività manifatturiere, pari a 24,7 milioni di tonnellate, che dunque rappresentano circa il 30% dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Per quanto concerne la tipologia di rifiuto, il 33% è classificabile come rifiuto derivante dal trattamento dei rifiuti, ovvero poco meno di 26,7 milioni di tonnellate».
Si tratta di un ammontare paragonabile a quello di tutti i rifiuti urbani (o superiore, se si guarda al dato complessivo dei rifiuti da rifiuti nel 2019, il più recente disponibile), che abbiamo forti difficoltà a gestire come sistema-Paese.
«I dati Eurostat confermano come la principale categoria di rifiuto prodotto dalle attività economiche sono proprio i rifiuti decadenti dal trattamento dei rifiuti. Questa evidenza – osserva nel merito il Ref ricerche – si presta ad una duplice lettura: da un lato, rappresenta l’esito di un modello di gestione improntato alla massimizzazione del recupero di materia; dall’altro lato, sottende una “ridondanza” di trattamenti in risposta alla carenza di impianti di chiusura del ciclo».
È interessante, in questo senso, analizzare l’esperienza degli altri maggiori Paesi europei, e segnatamente di Germania e Francia, a confronto con quella del nostro Paese. In Italia la produzione specifica di rifiuto per unità di Pil è addirittura aumentata tra il 2010 e il 2018, mentre in Germania è rimasta sostanzialmente stabile e in Francia è diminuita. Una distanza che si misura soprattutto sui rifiuti da trattamento dei rifiuti, rifiuti liquidi da trattamento dei rifiuti, fanghi industriali e comuni, rifiuti plastici e veicoli fuori uso.
Perché in Italia c’è una maggiore produzione di rifiuti da rifiuti, rispetto agli altri maggiori Paesi europei? Secondo l’analisi del Ref si tratta di «una peculiarità che può essere letta in esito all’ampio ricorso in Italia a forme di trattamento intermedie nel ciclo di gestione», ad esempio i Tmb.
Una prospettiva che diventa più chiara guardando agli scarti di selezione, che pesano 17,6 milioni di tonnellate l’anno: il 16% sul totale dei rifiuti prodotti dalle attività economiche. Si tratta di materiali come i residui della cernita in uscita dai processi di selezione meccanica per i rifiuti da avviare a riciclo, il combustibile da rifiuti e le frazioni non compostate di rifiuti biodegradabili.
«L’alta incidenza degli scarti non è di per sé un tratto negativo, che però deve essere letta alla luce di alcune considerazioni. Da un lato, è un’ulteriore conferma delle peculiarità di un modello di gestione fortemente orientato al recupero di materia (visto che ogni processo industriale non sarà mai a “rifiuti zero” come insegna il secondo principio della termodinamica, ndr). Dall’altro lato, è anche la cartina di tornasole della mancanza di impianti per la chiusura del ciclo. Quest’ultimo aspetto è evidente soprattutto con riferimento ai rifiuti indifferenziati di origine urbana, sottoposti a trattamenti al solo fine di sganciarli dai principi di autosufficienza regionale nello smaltimento (nonostante una recente sentenza della Corte di giustizia europea, ndr) e poter essere quindi esportati in altre regioni o all’estero. Diversamente, il peso inferiore degli scarti negli altri Paesi è spiegato dal maggiore ricorso al recupero energetico. Una modalità di gestione, questa, che chiude il ciclo dei rifiuti riducendo al minimo i trattamenti intermedi».
Il problema è che in Italia la realizzazione di nuovi termovalorizzatori è sempre più difficile a causa delle crescenti sindromi Nimby & Nimto diffuse lungo lo Stivale; un problema che le nuove tecnologie potrebbero però aiutare a superare, investendo nei cosiddetti impianti waste to chemicals.
Diverso, ma altrettanto critico, è il contesto dei fanghi che pesano per il 14% sul totale dei rifiuti prodotti dalle attività economiche (2018): si tratta di 6,1 milioni di tonnellate di fanghi comuni, a cui si sommano 5,7 milioni di tonnellate di fanghi industriali e altri rifiuti liquidi. Il volume totale di questi fanghi prodotti, pari a 11,7 milioni di tonnellate nel 2018, è – anche in questo caso – decisamente superiore a quanto registrato come negli altri Paesi.
«Soprattutto dal confronto con la Germania, è evidente – concludono dal Ref ricerche – che al nostro Paese paiono mancare soluzioni tecnologiche che ne riducano i volumi in principio, come l’essiccazione e la riduzione delle sostanze secche nel trattamento dei fanghi, ma anche forme di recupero dei nutrienti e del fosforo in sito e il riutilizzo delle acque reflue. Quindi, parte della risposta a queste questioni va ricercata nell’annosa difficoltà a disciplinare la materia, in particolare per quanto concerne lo spandimento in agricoltura dei fanghi e i criteri di End of waste (Eow) relativamente al recupero di fosforo e di nutrienti».