Il turismo dei rifiuti urbani ci costa 31mila ton di CO2 e 75 mln di euro in più di Tari

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Il turismo dei rifiuti urbani ci costa 31mila ton di CO2 e 75 mln di euro in più di Tari

Greenreport

Utilitalia, per rispettare i target Ue servono oltre 30 tra biodigestori e inceneritori

Brandolini: «Gli sforzi degli italiani nella raccolta differenziata devono essere premiati da un sistema che sia in grado di valorizzare al meglio i rifiuti

Per trasportare le 2,7 milioni di tonnellate di rifiuti urbani trattati in regioni diverse da quelle di produzione, nel 2018 sono stati necessari 107 mila viaggi di camion, pari a 49 milioni di chilometri percorsi: ciò ha comportato l’emissione aggiuntiva di 31.000 tonnellate di CO2 e 75 milioni di euro in più sulla Tari (il 90% dei quali a carico delle regioni del centro-sud). E insieme ai danni, ambientali ed economici, non è mancata la beffa: solo nel 2018 l’Italia, oltretutto, ha pagato ben 70 milioni di euro in multe Ue per le inadempienze che sono state contestate sulla gestione dei rifiuti.

È questa la paradossale fotografia sulla gestione della spazzatura prodotta nelle nostre case che ha scattato Utilitalia – la federazione nazionale delle imprese idriche, ambientali ed energetiche – nel suo nuovo report Rifiuti urbani, fabbisogni impiantistici attuali e al 2035. Il problema, in realtà, è noto da tempo: anche l’ultima rilevazione Ispra testimonia che «vi sono regioni in cui il quadro impiantistico è molto carente o del tutto inadeguato», con il risultato che buona parte dei rifiuti urbani che produciamo (in totale 30,2 mln di ton nel 2018) debba percorrere centinaia di km prima di trovare un impianto dove essere gestito in sicurezza: secondo le stime Utilitalia, il turismo dei rifiuti urbani riguarda 2,7 mln di ton all’anno, con un flusso che viaggia principalmente dal centro-sud verso gli impianti del nord.

Se è vero che ai sensi del comma 3 dell’art. 182 del D.Lgs. 152/06 i rifiuti urbani destinati a smaltimento devono essere trattati all’interno del territorio regionale, fatta la legge trovare l’inganno è stato facile: come noto, da tempo (con la direttiva sulle discariche 1999/31/CE, recepita nel 2003) i rifiuti urbani non possono essere smaltiti “tal quali” in discarica, ma vanno prima trattati e il compito molto spesso ricade sugli impianti Tm o Tmb. Dopo essere stati così lavorati i rifiuti urbani diventano speciali, e possono circolare liberamente sul territorio nazionale anche se destinati a discarica; a maggior ragione, lo stesso vale per i rifiuti speciali da urbani destinati a recupero energetico.

Non è un caso se, allargando lo sguardo a tutti i rifiuti speciali – gli urbani rappresentano appena il 18% di tutti gli scarti che produciamo – le distanze percorse prima di arrivare agli impianti arrivino a un quantitativo enorme: 1,2 miliardi di km percorsi ogni anno, senza contare le tratte fuori confine.

L’occasione per cambiare finalmente rotta, è il caso di dire, arriva con le nuove direttive Ue sull’economia circolare recentemente recepite dal Governo: entro il 2035 dovremo arrivare al 65% di riciclo e al 10% di discarica, con dunque un 25% di rifiuti che dovrà essere avviato a valorizzazione energetica. Per farlo non basta differenziare i nostri rifiuti in tanti sacchettini diversi: a valle serve una dotazione impiantistica adeguata.

«Gli sforzi degli italiani nella raccolta differenziata – dichiara Filippo Brandolini, vicepresidente Utilitalia – devono essere premiati da un sistema che sia in grado di valorizzare al meglio i rifiuti. In quest’ottica, i dati dimostrano che anche la raccolta differenziata e gli impianti non sono due elementi contrapposti, anzi: i territori che registrano le percentuali più alte di raccolta differenziata, non a caso, sono proprio quelli in cui è presente il maggior numero di impianti».

Ma quali impianti servirebbero, in concreto? Secondo Utilitalia, per raggiungere gli obiettivi Ue e annullare l’export di rifiuti tra le aree del Paese ne occorrono almeno 30, per il trattamento dei rifiuti organici e per il recupero energetico delle frazioni non riciclabili, quanto basta per coprire un fabbisogno pari a 5,7 mln di ton l’anno. Nello specifico, il nord risulterà autosufficiente per l’organico e in debito di 150mila tonnellate per la termovalorizzazione; il centro avrà bisogno di termovalorizzare ulteriori 1,2 milioni di tonnellate e di trattarne altrettante di organico; al sud avrà un fabbisogno di recupero energetico di 600mila tonnellate e di 1,4 milioni di tonnellate per l’organico.

«Senza impianti di digestione anaerobica e termovalorizzatori – continua Brandolini – non è possibile chiudere il ciclo dei rifiuti in un’ottica di economia circolare. Mentre l’industria del riciclo denuncia la carenza di sbocchi per gli scarti, si continuano a ipotizzare scenari con future tecnologie che al momento non sono disponibili o immediatamente applicabili su scala estesa e si rimanda un problema oggettivamente non più procrastinabile».

Anche perché il tempo per tergiversare sta finendo. Al momento l’Italia avvia a discarica una media del 20,2% dei rifiuti urbani trattati, da dimezzare in 15 anni, e oltretutto la vita residua delle discariche attive è in esaurimento: per il nord si prospettano ancora 7-8 anni; per il centro 6-7 anni; per il sud 2-3 anni. Questo significa che entro pochi anni, in mancanza di interventi, la chiusura delle discariche soprattutto al sud farà ulteriormente aumentare il numero dei viaggi dei rifiuti verso gli impianti del nord.

Al contrario, investendo nella realizzazione di biodigestori e impianti, si attiverebbero investimenti da 4,1 mld di euro e si creerebbero circa 1.800 posti di lavoro verdi; senza contare gli altri 1,2-1,5 mld di euro necessari per arrivare a una raccolta differenziata all’82%, propedeutica per tagliare il target di avvio a riciclo al 65% del totale dei rifiuti urbani prodotti.

Secondo Utilitalia, sarebbero evidenti anche i vantaggi dal punto di vista energetico e climatico. Con il biometano – al 100% energia rinnovabile, dato che deriva dalla naturale degradazione dei rifiuti organici – e l’energia elettrica rinnovabile degli inceneritori (per il 51% rinnovabile, secondo una percentuale probabilmente troppo generosa concessa ai sensi del decreto Mise del 6 luglio 2012) si potrebbero soddisfare rispettivamente le necessità energetiche di circa 230.000 e 460.000 fa­miglie, pari a circa, rispettivamente, 700.000 e 1,4 milioni di abitanti ogni anno.

Di certo non è più il momento delle ipotesi, ma quello di chiudere davvero – e presto – il ciclo dell’economia circolare, decidendo di colmare quelle lacune che altrimenti, come testimonia la Direzione investigativa antimafia, aprono grossi spazi alla malavita. Con quali impianti, e dove? Le aziende riunite in Utilitalia hanno fatto la loro proposta, così come quelle che fanno capo ad Assoambiente. La risposta definitiva dovrà arrivare dallo Stato, chiamato entro 18 mesi a redigere un Programma nazionale per la gestione dei rifiuti: adesso serve pragmatismo e coraggio.

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