Greenreport
I dati Istat alla base del nostro metabolismo economico
Solo le crisi economiche sembrano in grado di frenare il trend, ma si tratta di impatti che percepiamo sempre meno perché li scarichiamo altrove: le importazioni sorpassano ormai l’estrazione interna
L’evoluzione recente delle emissioni climalteranti causate dai residenti nel nostro Paese è dominata, come quella degli input materiali, dagli effetti frenanti della crisi economica. Lo dice l’Istat nel Rapporto annuale 2020, dove segnala che “dal 2008 al 2018 queste emissioni, espresse in CO2-equivalenti, si sono ridotte del 23%, attestandosi negli ultimi anni attorno ai 440 Mt, soprattutto per via del calo della CO2. Questa pesa l’82% nel 2018 (86% nel 2008), seguita dal metano (CH4 , 10%), dal protossido di azoto (N2 O, 4%) e dai composti del fluoro (soprattutto HFC, 3%)”.
Un po’ come accaduto con l’emergenza Covid, è uno shock economico ciò che fa cambiare rotta improvvisamente agli impatti ambientali, mentre non pare esserci traccia di riscontro rispetto all’entrata in vigore di iniziative o leggi di protezione ambientale. Da segnalare un altro dato, tutt’altro che scontato: “Le famiglie causano il 26% delle emissioni di gas serra, le attività agricole il 9%, la produzione di energia elettrica il 21%”. Le altre attività industriali “il 27% e i servizi il 17%”. Tra famiglie e industrie c’è solo un 1% di differenza rispetto alle emissioni di gas serra, a dimostrazione che i comportamenti personali, se ben incanalati all’interno di una regia nazionale, potrebbero davvero dare un contributo molto significativo.
Passando ai flussi di materia, che sono tra i principali indicatori della (in)sostenibilità ambientale, il rapporto spiega che “la quantità di materia complessivamente trasformata in residui di ogni tipo o in nuovi stock antropici, misurata dal consumo di materiali, ossia dal “consumo interno di materia” (DMC), cresce molto rapidamente nella fase del “miracolo economico” sino al 1973, passando da 211 ((Mt) del 1951 a 735 (MT) (pari rispettivamente a 4,4 e 13,5 tonnellate/anno pro-capite). Con gli shock petroliferi degli anni ‘70 il DMC tende a stabilizzarsi e oscillare fino al 1997 (ca. 700 Mt pari a 12 t/a p.c.) quando riprende a crescere, giungendo a un massimo pari a 849 Mt (14,5 t/a p.c.) nel 2006, per poi crollare e attestarsi negli anni recenti poco sotto i 500 Mt (8,1 t/a p.c. nel 2018)”.
Un dato ancora più impressionante se confrontato con quello relativo alla produzione di rifiuti – urbani e speciali –, generalmente considerato come principale indicatore dei nostri impatti materiali sull’ecosistema: a fronte di 500 milioni di tonnellate annue di risorse materiali consumate in termini di DMC la produzione di rifiuti che contabilizziamo è di circa 170 milioni di tonnellate (cui si aggiungono altre 450 milioni di tonnellate di emissioni gassose, in gran parte composte di gas serra).
Tornando all’analisi Istat, il report spiega che nel dettaglio “questa evoluzione è dominata da quella dell’estrazione interna di risorse primarie (DE): 189 Mt nel 1951, 607 Mt nel 2006, 321 Mt nel 2018, in particolare di minerali da costruzione (circa i 2/3 della DE in media), poco scambiati internazionalmente e collegati a crescita degli stock antropici e modifiche del paesaggio”.
Ma nel metabolismo economico e quindi nei flussi di materia vanno considerate anche le importazioni di materia fatte all’estero, che non hanno impatti nel nostro Paese in qualità di estrazioni, ma di trasformazione: e le importazioni nette (PTB) mostrano invece una tendenza strutturale alla crescita. Aumentate molto velocemente sino al 1973 continuano poi ad espandersi a un ritmo inferiore toccando un massimo di 242 Mt nel 2006. Negli anni successivi gli scambi internazionali subiscono molto meno della DE gli effetti della crisi con una discesa che si arresta già nel 2013”.
Da notare invece che “nell’ultimo biennio le importazioni sorpassano l’estrazione interna, arrivando a pesare per il 34,6% del DMC nel 2018. Ciò rappresenta una progressiva perdita di connessione tra approvvigionamento di risorse materiali e territorio nazionale, con lo “spostamento” all’estero delle pressioni ambientali di prelievo e trasformazione. Per tutti i materiali tranne quelli da costruzione, si verifica una vera e propria sostituzione delle risorse interne con quelle importate. Importante, in tal senso, è il calo della produzione interna di biomasse da circa 160 a meno di 100 Mt, mentre le quantità importate passano da circa 30 a oltre 60 Mt”.
Criticità strutturali come possibili leve della ripresa rimangono tuttavia le importazioni di combustibili fossili (oltre il 50% del totale), il cui consumo costituisce il principale legame tra i flussi materiali e quelli delle specifiche sostanze che sono all’origine dei cambiamenti climatici.
Quasi tutte le regioni italiane – sostiene sempre l’Istat – sono importatrici nette di materiali, ovvero registrano valori positivi per il PTB (che a livello regionale, considera, oltre agli scambi con l’estero, quelli con le altre regioni).
I flussi indiretti – conclude l’Istat –, superiori ai rispettivi flussi diretti, fanno sì che lo RMC (ovvero il Raw material consumption, definito come DMC più il saldo dei flussi indiretti) sia sistematicamente maggiore del DMC di circa il 30% e che i due aggregati presentino una discesa piuttosto simile, che peraltro si interrompe nella recente fase di ripresa economica (2014-2017). I flussi indiretti delle nostre esportazioni sono maggiori, per unità di flusso effettivo, rispetto a quelli delle importazioni: mediamente, i prodotti esportati dall’Italia sono più elaborati di quelli importati, in quanto una quota maggiore della materia prima necessaria è trasformata in residuo.