Dopo le polemiche sollevate dall’indagine di Greenpeace sulle bioplastiche abbiamo chiesto un parere al vicepresidente di Kyoto Club. “Le produzioni italiane sono uniche al mondo”
Le bioplastiche compostabili sono state al centro di un dibattito che ha diviso gli ambientalisti. L’antefatto: il CNR ha diffuso dei dati senza aver completato la sperimentazione nello studio “Anche le bioplastiche si degradano lentamente nell’ambiente”, poi un’indagine di Greenpeace ha parlato addirittura di truffa di Stato. Da una parte c’è chi – come per esempio Assobioplastiche e Biorepack, che riuniscono le aziende del settore e le attività consortili di recupero – ritiene che le bioplastiche possano essere un contributo essenziale alla sostenibilità, date anche le specificità del nostro Paese e fermo restando che la riutilizzabilità resta sempre l’opzione preferibile. Dall’altra parte vi è, invece, chi le critica tout court. Ne abbiamo parlato con Francesco Ferrante (nella foto), vicepresidente di Kyoto Club e storico protagonista dell’ambiente, da Legambiente fino a Green Italia.
Grandi vantaggi ma non per tutte le applicazioni: in quali segmenti di utilizzo le plastiche biodegradabili avranno più futuro e in quali invece andranno sviluppate meglio le tecnologie?
Premesso che non sono un tecnologo o un ricercatore e quindi non sono in grado di prevedere i futuri prossimi passi dell’innovazione, osservo che già adesso nel caso italiano produciamo bioplastica con percentuali sempre maggiori di materia prima rinnovabile e non fossile. Quindi, un prodotto più sostenibile non solo per biodegradabilità data dalla struttura della materia propria di tutte le bioplastiche, ma soprattutto per i vantaggi specifici dati da una materia prima di origine naturale, che quindi ha ridotte emissioni climalteranti. Di conseguenza, nello sforzo generale di ridurre l’”usa e getta” con questi nuovi materiali possiamo coprire impieghi per cui il riutilizzabile è sconsigliabile o impossibile. Un esempio evidente è quello delle mense delle carceri, dove non possono essere usate stoviglie tradizionali in metallo, vetro o ceramica, poiché questi materiali possono essere trasformati in armi improprie; ma un esempio è anche il più consueto picnic, che fa parte dell’esperienza che appartiene alla vita quotidiana di ciascuno di noi. Sono due casi in cui le stoviglie in plastica biodegradabile possono presentare una loro utilità specifica, anche se circoscritta. Va poi detto anche che il vantaggio straordinario delle tecnologie legate alla bioplastica è che oggi, grazie a quelle ricerche, si sono sviluppate altre filiere di biochimica, per cui si hanno intermedi biologici. Da questo punto di vista, dunque, è un’introduzione molto utile, che magari sarà presto superata da nuovi sviluppi e nuove acquisizioni, perché la ricerca corre e non si sta mai fermi.
Queste sono caratteristiche specifiche della plastica biodegradabile italiana?
Sì, è un nostro specifico, dato che all’estero si è sviluppata una filiera di materiali biodegradabili che parte da materia prima fossile. Noi abbiamo un materiale di partenza sempre più rinnovabile e, inoltre, abbiamo sviluppato una filiera intelligente anche per il fine-vita di questi prodotti: la raccolta differenziata dell’umido, che nel nostro Paese è molto più avanzata e di qualità di quello che si potrebbe pensare anche rispetto a molti altri stati europei, fa sì che questo materiale, una volta conferito nell’umido, trovi il suo fine vita in un percorso circolare, diventando biometano (se trattato in un digestore anaerobico) e compost. La materia prima usata in Italia per fare i sacchetti è il mais, per produrre il biobutandiolo si usa melassa da zuccheri, ma nella bioeconomia un ruolo importante lo può svolgere il cardo. E sono tutte coltivazioni che non vanno in concorrenza con la produzione di food, che ovviamente deve rimanere la vocazione principale della nostra agricoltura, ma che si inseriscono molto bene in quella multifunzionale che è utilissima anche per il sostegno delle attività agricole altrimenti a rischio.
Altro tema: spesso sul tema della plastica, bio o no, si ha l’impressione che due idee diverse di ambientalismo si confrontino. Quali due diverse concezioni dell’ambiente si sono contrapposte sul tema delle bioplastiche?
Secondo me si confrontano due idee di ambientalismo: la prima è, come dire, più “pessimista”: appartiene a chi tende a pensare che le imprese e l’industria sono sempre speculatori, che i cittadini devono essere istruiti, ammaestrati ed educati perché, abbandonati a sé stessi, avrebbero comportamenti insostenibili. Dall’altro lato c’è un ambientalismo più ottimista e fiducioso, il quale pensa che l’innovazione tecnologica può essere usata non solo per fare profitti, ma anche per migliorare la qualità del processo di produzione e del prodotto stesso, e che i cittadini, se sono messi in condizioni di far bene, lo fanno.
Le bioplastiche e la raccolta differenziata possono portare i cittadini verso prassi quotidiane più virtuose?
Certo: l’esempio della Sicilia sulla raccolta differenziata contraddice molti luoghi comuni e molti pregiudizi. Se è vero che a Palermo e Catania sono molto indietro, ci sono situazioni come quelle di Agrigento e Ragusa, due città con la raccolta differenziata attorno al 70%, e ci sono molti altri Comuni siciliani che sono al 90% di differenziata. Cifre che superano tante città del Nord. Se si fornisce un sistema organizzato, i cittadini lo usano. E lo dimostra anche la vicenda dei sacchetti di plastica biodegradabile: all’epoca fummo accusati di voler sostituire, in un sistema 1 a 1, la plastica tradizionale con la bioplastica e avremmo dovuto invece contrastare – così ci accusavano – l’usa e getta. Invece, quel che è successo è che in questi 15 anni di bioplastica il consumo di sacchetti è diminuito del 70% : o si usano quelli di bioplastica o li si portano da casa. Vedrai che, alla fine, si convinceranno tutti che abbiamo ragione noi “fiduciosi”: su questa vicenda specifica, presto i dati ci diranno che, nell’immediato futuro, la riduzione dell’usa e getta ci sarà, le bioplastiche saranno smaltibili nell’umido normalmente, come fa la stragrande maggioranza degli impianti italiani e questa sarà un’innovazione che avremo “portato a casa”: e poi, da lì, potremo lavorare anche su altre innovazioni.