Greenreport
L’analisi del laboratorio Ref Ricerche
Ecotasse all’italiana: poco “eco”, molto “tasse” e alla fine vince la discarica
Un gettito da 58 miliardi di euro all’anno che finisce ovunque tranne che a beneficio dell’ambiente
Ad oggi le ecotasse – intese genericamente come imposte ambientali – hanno davvero poco di “eco” e moltissimo invece di “tassa”, rappresentando pressoché unicamente una fonte di prelievo fiscale analoga alle altre. Finendo talvolta per tradire lo scopo con cui sono nate, come disincentivare l’impiego delle discariche.
A spiegarlo è il laboratorio Ref Ricerche, e a leggere i numeri sciorinati nell’indagine – peraltro in parte non nuovi e che gridano vendetta da anni – si conferma che solo l’1% di tributi ambientali sono ‘tasse di scopo’, ovvero con un gettito davvero utilizzato per finanziare azioni di recupero e protezione ambientale, mentre il restante 99% è invece dedicato a coprire spese generali che con l’ambiente c’entrano davvero poco. Il caso tasse sui rifiuti ne è buona quintessenza.
Secondo il Ref, infatti, queste “sono comprese tra le imposte ambientali sull’inquinamento. Anche se questa affermazione non è del tutto corretta”. Nel 2018 il loro pagamento ha portato nelle casse dello Stato 619 milioni di euro, di cui il 97% (603milioni di euro) proveniente dalla raccolta del cosiddetto tributo provinciale per la tutela ambientale e da altre “ecotasse” legate alle operazioni di smaltimento in discarica. Come dire, sottolinea il Ref, “in Italia la tassazione sull’inquinamento è equivalente alla tassazione sui rifiuti”.
Il punto dolens è che questa tassazione non ha fatto che aumentare nel corso degli ultimi dieci anni, passando da 508 milioni di euro del 2009 a 603 del 2018. Soprattutto, l’utilizzo di queste risorse non va nella direzione dichiarata. Basta guardare al “tributo speciale discarica”, o più semplicemente “ecotassa”. Qui infatti si tocca il paradosso o meglio l’eterogenesi dei fini: “Introdotto a metà degli anni Novanta con l’obiettivo di scoraggiare la produzione di rifiuti e favorire il recupero di materia, doveva evitare dunque il ricorso alla discarica attraverso il finanziamento di soluzioni impiantistiche più sostenibili da un punto di vista ambientale. Quell’impostazione, così moderna che ben si armonizza con gli attuali criteri dell’economia circolare (come anche da direttive UE), purtroppo non si è tradotta in un’efficace modulazione del tributo stesso”.
Che è successo? Introdotta dal 1° gennaio 1996 l’ecotassa avrebbe dovuto rendere gli smaltimenti in discarica meno convenienti da un lato, e sostenere alternative impiantistiche dall’altro. Ciò non è successo per via del “mancato adeguamento delle aliquote massime rimaste ferme ai valori di metà anni Novanta” che “ha portato a una graduale perdita di valore (circa 1/3), passando dai 38,5€/tonnellata del 1996 ai 25,8€ del 2018 (valori attualizzati)”. Ad oggi, l’ecotassa con il suo tetto a 25,82 euro/tonnellata non garantisce neanche un apporto apprezzabile alle entrate pubbliche. Il suo gettito si attesta poco sopra i 100 milioni di euro all’anno, cifre lontane da quelle dei maggiori Paesi europei.
“Va ricordato – aggiunge il Ref – che il valore medio nazionale, ponderato sui flussi in ingresso, è di poco superiore ai 5€/tonnellata, con aliquote inferiori ai 2 euro in regioni come Lazio e Molise. Una decrescita che si è riflessa negativamente anche sul gettito: dai 470 milioni di euro del 1996 si è arrivati ai 101 milioni del 2018, facendo segnare un decremento complessivo del 79%”.
Ed ecco servito il boccone amaro: “Le conseguenze di questa modalità di agire sono ben visibili e raccontano di un ricorso alla discarica decisamente marcato con quote di smaltimento sul totale dei rifiuti prodotti ancora elevate. Nel caso dei rifiuti urbani si arriva fino al 22%, ovvero percentuali assai distanti dall’obiettivo indicato dalle Direttive Ue al 10% nel 2035”.
Appare evidente – prosegue il documento – “come il mancato adeguamento del tetto massimo delle aliquote ha permesso che la soluzione “discarica” continuasse a essere conveniente, assolvendo al ruolo di soluzione impiantistica di riferimento e imprescindibile in molte aree del Paese. Al contempo, da più parti si lamenta la mancanza di investimenti sufficienti ad assicurare lo sviluppo di impiantistica finalizzata al recupero e al riciclaggio”.
Che fare dunque? Il Ref ha un soluzione, assolutamente percorribile, se solo però si volesse davvero: “L’allineamento delle aliquote reali effettive dell’ecotassa verso un livello minimo uniforme nazionale consentirebbe di aumentare il gettito e di finanziare gli investimenti necessari allo sviluppo dell’economia circolare. Un passo necessario per avviare gli impianti nel recupero di materia e nel riciclo di cui il Paese ha bisogno, in particolare al Sud dove ogni strategia di rilancio non può prescindere da un ripensamento del ciclo dei rifiuti” .
Vale la pena a questo punto fare due conti: con le tasse ambientali (tutte) allo Stato viene garantito un gettito di quasi 58 miliardi di euro (dati 2018). Questo in virtù delle imposte sull’energia (46 miliardi di euro incluse le tasse sugli oli minerali e derivati, quelle sul carbone, sul gas metano e sull’energia elettrica); quelle derivanti dalla tassazione sui trasporti (circa 11 miliardi tra bollo e RC auto) e gli appena 0,6 miliardi riconducibili a imposte ambientali sull’inquinamento, dove come abbiamo visto la parte del leone la fanno le tasse legate alla gestione rifiuti: 342 milioni di euro del tributo provinciale per la tutela ambientale; 101 milioni di euro della tassa sullo smaltimento in discarica (ecotassa); 160 milioni di euro da tassazione assimilabile all’ecotassa.
Il Ref fa notare che “se si raffronta la situazione italiana a quella europea, notiamo come la tassazione ambientale nel nostro Paese non sia propriamente bassa, con l’incidenza sul totale di imposte e contributi sociali del 7,8%, ovvero decisamente superiore alla media dell’Unione europea che si ferma al 6% e a quelle delle maggiori economie, come Regno Unito (7%), Spagna (5,3%), Francia (5,1%) e Germania (4,5%)”. Una consistenza “che trova conferma se si guarda l’incidenza sulla costruzione del Pil nazionale, con una percentuale del 3,3%. Anche in questo caso il dato è superiore alla media degli Stati della Ue (2%) oltre che delle già menzionate maggiori economie del continente; in Germania, nazione da sempre incline a politiche green, il peso delle ecotasse sul Pil è decisamente più basso: 1,8%”.
Ma nel caso italiano, in larga parte, si tratta di tassazione ambientale solo a parole. Come già accennato solo l’1% dei nostri tributi ambientali sono ‘tasse di scopo’ (e dunque il 99% dei 58 miliardi annui di gettito va a finanziare altro rispetto alla sostenibilità), e solo per l’1% si tratta di imposte su specifici inquinanti o consumo di risorse naturali.
Se dunque queste tasse ambientali fossero davvero utilizzate per i motivi per i quali in teoria le si pagano, l’ambiente ne trarrebbe un gran giovamento, ma così non è. Da qui la proposta del Ref ricerche: “Se si potesse assicurare a finalità “di scopo” (cioè alla protezione dell’ambiente) anche solamente il 5% del totale (un valore comunque di circa 5 volte maggiore rispetto all’attuale), le imposte ambientali potrebbero garantire ben 2,9 miliardi di euro per il miglioramento o la mitigazione dell’impatto ambientale, ad esempio sostenendo gli investimenti in direzioni alternative coerenti. Non occorre, pertanto, aumentare le tasse per accrescere la spesa a favore dell’ambiente. Basta dirigere nella giusta direzione le risorse già disponibili, invertendo la rotta attuale e cercando di accrescere la specificità della tassazione ambientale”.