Economia circolare, in Toscana oltre il 20% della differenziata è da buttare di nuovo

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Economia circolare, in Toscana oltre il 20% della differenziata è da buttare di nuovo

Impianti, norme e mercato per i ri-prodotti: il punto sulle necessità per portare avanti la transizione ecologica nel V Forum di Legambiente

Neanche la pandemia è riuscita a fermare il Forum dell’economia circolare di Legambiente, con la V edizione che è andata oggi online in diretta streaming da Prato, mettendo in luce come questa parte fondamentale della transizione ecologica che siamo chiamati a compiere debba poter poggiare su «tre assi» illustrati dal presidente del Cigno verde regionale, Fausto Ferruzza.

In primis una regolazione normativa adeguata, perché come ha sottolineato durante l’evento anche il presidente nazionale di Legambiente, Stefano Ciafani, l’economia circolare «rischia di non decollare a causa della burocrazia» come per la mancanza di pianificazione e politica industriale. Al proposito Ferruzza (nella foto, ndr) sottolinea che in Toscana stiamo aspettando «una rivisitazione del Piano regionale rifiuti e bonifiche (Prb)», in capo alla Regione, e «una serie di decreti attuativi sull’End of waste» sui quali il ministero dell’Ambiente resta in forte ritardo. Gli altri due assi fondamentali, a lungo esplorati durante il webinar, sono la dotazione impiantistica perché «l’economia circolare si nutre di impianti per il riciclo» e i «ri-prodotti, i prodotti da riciclo che devono trovare spazio sul mercato» e per farlo hanno bisogno di un sostegno ad hoc come gli acquisti verdi della Pubblica amministrazione (Gpp).

Per quanto riguarda la regolazione del comparto, il nuovo assessore regionale all’Ambiente Monia Monni ha offerto un prezioso punto della situazione confermando quanto già anticipato sulle nostre pagine: l’avvio di 11 tavoli tecnici con altrettanti settori produttivi rappresenta un passo importante per capire come gestire i relativi rifiuti speciali – alcuni di questi tavoli «erano già partiti nel corso della scorsa legislatura, ma adesso l’organizzazione è più strutturata», spiega Monni – e nonostante la mano pubblica abbia competenza diretta solo sui rifiuti urbani, con il nuovo Prb la Regione intende «esercitare un ruolo forte di coordinamento e di regia anche sul tema dei rifiuti speciali, lavorando insieme a tutti i soggetti dei settori produttivi per far sì che i loro scarti rientrino nel ciclo produttivo».

Sia per gli urbani sia per gli speciali, la strategia è quella di aumentare il riciclo e per questo «servono impianti dedicati. Quanti? Vediamo. In questi giorni – dichiara l’assessore – sto facendo partire un’analisi Lca per capirlo meglio. Ci sarà però una fase di transizione in cui il ricorso agli impianti attuali (di smaltimento, ndr) è inevitabile». E per alcune frazioni continuerà ad esserlo: «Dobbiamo ridurre il ricorso alle discariche, ma sappiamo che per alcune tipologie di rifiuti come l’amianto resta ad oggi la soluzione migliore», come più volte ribadito anche da Legambiente.

Per quanto riguarda più nello specifico i rifiuti urbani, l’assessore all’Ambiente conferma l’intenzione di passare da tre Ato regionali – un percorso iniziato nel 2007 e appena concluso con l’affidamento dell’Ato costa al gestore unico Retiambiente – a uno soltanto: «Voglio presentare rapidamente una legge per arrivare a costituire un’Ato unico per i rifiuti, perché ritengo che più Ato non facciano altro che moltiplicare sulla carta l’esigenza di impianti che poi abbiamo difficoltà a realizzare; serve una visione ampia per la pianificazione e una visione più legata ai territori per la gestione, quindi una serie di sub-ambiti che rafforzino le competenze dei Comuni per quanto riguarda la gestione. Ma il “bacino estrattivo” dei rifiuti dev’essere l’intera regione e non i singoli Ato».

Ma se l’obiettivo finale è arrivare al 65% di effettivo riciclo per i rifiuti urbani che produciamo, lo sforzo dev’essere ad ampio raggio a partire dal miglioramento qualitativo – e non solo quantitativo – delle raccolte differenziate. I dati mostrati dall’Agenzia regionale recupero risorse e riportati in pagina sono impietosi: nel 2018 gli scarti da raccolta differenziata multimateriale sono al 25%, dunque un quarto del raccolto è da buttare di nuovo. Guardando agli ingombranti si arriva al 54%, mentre i dati relativi ai 9 impianti di compostaggio presenti in regione confermano l’urgenza di investire in biodigestori: in ingresso agli impianti abbiamo i rifiuti organici, ma il compost (ammendante) in uscita è solo l’11%. Il compost fuori specifica rappresenta un altro 9%, lo scarto il 26%, le perdite di processo il 48%. Numeri che evidenziano anche l’urgente necessità, in capo in primis ai cittadini, di «migliorare la qualità delle raccolte differenziate, in particolare l’organico, in modo che il compost abbia poi le caratteristiche adeguate per essere impiegato in agricoltura».

Ma il problema è generale (e si ritrova in tutto il Paese): a fronte di una raccolta differenziata al 56% (dato 2018) Arrr stima che il recupero di materia sia pari al 46% di tutti i rifiuti urbani prodotti, con scarti stimati sul totale di raccolta differenziata pari a circa il 20%.

Se migliorare la qualità della raccolta differenziata risulta dunque centrale, altrettanto lo è iniziare finalmente a prendere confidenza con un’altra realtà di fatto: anche dalla migliore delle economie circolari, come da ogni altro processo industriale, continueranno a fuoriuscire scarti che è necessario poi gestire. Non è un problema di forza di volontà, ma di termodinamica.

Quando assistiamo a qualsiasi trasformazione, come accade in ogni processo industriale riciclo compreso, una parte dell’energia e della materia disponibile si degradano irreversibilmente. Ecco dunque perché anche le attività di riciclo producono a loro volta nuovi rifiuti, che continueranno a dover essere recuperati energeticamente e/o smaltiti in sicurezza all’interno di discariche autorizzate. Impianti di recupero energetico (come i termovalorizzatori) e di smaltimento che dunque, anche se sempre più marginalmente, continueranno ad essere necessari a livello regionale se non vogliamo continuare a spedire la nostra spazzatura in altre regioni italiane se non all’estero.

Ciò naturalmente non significa disconoscere la priorità del riciclo, che peraltro in Toscana vanta già oggi esempi d’eccellenza. È il caso di Revet, con il suo direttore generale Alessandro Canovai intervenuto alla kermesse legambientina per descrivere «forse l’unica esperienza regionale di industria unitaria per la valorizzazione delle filiere che ci sono state affidate: imballaggi plastici, vetrosi, metalli – alluminio e banda stagnata – e poliaccoppiati».

Revet infatti da oltre 30 anni rappresenta un leader dell’economia circolare, una società a prevalente capitale pubblico che può però contare su un socio privato d’eccellenza come Montello, e che è impegnata oggi in «un grande piano d’investimenti da oltre 30 milioni di euro, finalizzato ad efficientare le filiere. A luglio 2021 terminerà un importante revamping al nostro polo impiantistico di Pontedera, che ci consentirà di avere la capacità sufficiente a dare a tutta la regione l’obiettivo di riciclo» per quelle frazioni di rifiuti gestite da Revet. Rifiuti che, una volta riciclati, devono però tornare sul mercato ed essere ri-comprati affinché il cerchio si chiuda.

«L’economia circolare appunto è un’economia, che soggiace dunque ai paradigmi industriali: trasformare una materia prima, i rifiuti raccolti dai cittadini, in un prodotto che abbia qualità e prezzo adeguati», sintetizza Canovai, e le cifre in gioco necessitano di politiche industriali e sbocchi di mercato adeguati: solo in Toscana, ad esempio, si producono ogni anno 40mila tonnellate di plastica riciclata.

«Come sono state incentivate le energie rinnovabili, occorre adesso incentivare i materiali rinnovabili. Anche imponendo ai produttori di materia vergine – incalza Canovai – di avere una percentuale di materie rinnovabili nel loro portafoglio vendita».

In un mondo dove a prevalere è ancora il valore economico rispetto a quello ambientale, il perché è molto semplice: la plastica riciclata è un costo industriale standard, che le permette di rimanere relativamente protetta dalle oscillazioni legate alla finanziarizzazione delle commodity, ma i costi restano elevati e quando il prezzo del petrolio si abbassa molto (come in questa fase) a livello economico non c’è partita con la plastica vergine. Gli strumenti a sostegno del resto non mancherebbero, a partire dal mercato strutturato che sarebbero in grado di offrire – se pienamente realizzato – gli acquisti verdi (Gpp) della pubblica amministrazione.

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