Il Tirreno
Il caso del golfo di Follonica rientra tra quelli previsti in un documento del ministero dell’Ambiente
La Protezione civile deve riconoscere lo stato di emergenza per attivare l'intervento di recupero
Cinque anni. Tanto è passato da quando il 23 luglio 2015 nelle acque del golfo di Follonica, a due passi
dall’isolotto di Cerboli, il cargo Ivy ha disperso 63mila chili di plastiche eterogenee compresse in 56 ecoballe
di Css, cioè combustibile solido secondario da avviare all’incenerimento. Da allora il timer della bomba
ecologica ha iniziato a correre. Tutto questo, è la domanda non più rinviabile, poteva essere evitato? La
risposta che nessuna autorità o istituzione ha dato sta nelle carte. E mette in luce che qualcosa non ha
funzionato. A partire dall’applicazione del “Piano operativo di pronto intervento per la difesa del mare e delle
zone costiere dagli inquinamenti accidentali da idrocarburi e da altre sostanze nocive”. Il titolo dice già tutto.
Lo ha messo a punto da anni il ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare. In tutto sono 55
pagine in cui si disciplinano le modalità operative di intervento del dipartimento della Protezione civile
nazionale. Seguendo lo schema di quanto è accaduto al largo di Cerboli siamo in uno dei casi previsti dal
piano ministeriale. Insomma, prima di arrivare all’attuale situazione con un disastro ambientale incombente si
poteva fare di più e meglio. Ora, nonostante i ritardi e i tentennamenti, è il momento per rimediare. Aprire i
cassetti dove quel piano è finito e rileggerlo. Il Tirreno lo ha fatto. C’è tanto di definizione per capire il campo di applicazione.
Per difesa da inquinamento di idrocarburi o di altre sostanze nocive “si intendono tutte le
azioni, non solo operative, finalizzate alla salvaguardia delle vite umane e tutela di tutti gli interessi
economici ed ambientali”, oltre alla “eliminazione del rischio, limitazione dei danni e attività di bonifica”. Ma
anche la “attuazione, coordinata con i competenti organi istituzionali, di tutte le iniziative necessarie ed
indilazionabili per la ripresa delle normali condizioni di vita e di libera fruizione delle zone interessate
dall’inquinamento o dalla sua minaccia”. A scanso di equivoci è chiarito che per incidente marino si intende
“qualsiasi evento, anche doloso, che causi o minacci di causare sversamenti in mare e/o su costa di
idrocarburi o di altre sostanze nocive”. Quando si applica il piano? “In tutti i possibili inquinamenti marini o
costieri – si legge in quelle 55 pagine -, qualunque siano le fonti e le situazioni che li hanno originati, quando
sia stato dichiarato lo stato di emergenza nazionale ai sensi dell’articolo 5 della legge 225/92, ovvero, nei
casi di situazioni emergenziali eccezionali che possano compromettere l’integrità della vita, ai sensi
dell’articolo 3 della legge 286/02”. Insomma, il criterio guida è l’entità del danno che un inquinamento può
provocare nei riguardi degli interessi nazionali e della salvaguardia della vita umana e dell’ambiente in mare
o lungo le coste. Puntando la lente sul golfo di Follonica e quelle migliaia di chili di plastiche sul fondale
marino, senza tornare indietro nel tempo, può bastare la misura data dall’Istituto superiore per la protezione
e la ricerca ambientale (Ispra), in un documento del 4 maggio. Indifferibile. Così viene classificato il recupero
di quelle ecoballe. Carte indirizzate al commissario straordinario Aurelio Caligiore – capo del Reparto
ambientale marino delle Capitanerie di porto (Ram), struttura specialistica che è incardinata presso il
ministero dell’Ambiente – incaricato dal 25 giugno 2019 del recupero e smaltimento di quei 63mila chili di
plastiche. Incarico in scadenza tra 50 giorni e che da dicembre è al centro di un procedimento dell’Autorità
garante per la concorrenza e il mercato (Agcm) per potenziale conflitto di interessi su cui l’Authority si
pronuncerà solo il 31 luglio. Le carte dell’Ispra sono le ultime che il commissario straordinario ha messo sul
tavolo della Protezione civile nazionale. “L’Istituto si è espresso unanimemente circa l’indifferibilità della
messa in opera di ogni azione – si legge nel documento – che possa contribuire al recupero dei materiali
dispersi, in tempi certi e il più presto possibile, pena un costante aggravio dell’inquinamento in atto”.
La palla è in mano al dipartimento della Protezione civile da cui si attendono provvedimenti in linea con l’emergenza,
già sollecitati due mesi fa dal presidente della Regione Toscana Enrico Rossi con una formale richiesta di
riconoscimento dello stato di emergenza nazionale che consentirebbe di mettere in campo un intervento
rapido ed efficace e superare i limiti della nomina del contrammiraglio Caligiore. Un passaggio che tuttavia
non è indispensabile a patto di un’assunzione di responsabilità del presidente del consiglio Giuseppe Conte
a cui sono stati inviati nuovi formali appelli dalla Regione e dal Comune di Piombino. Anche il Piano prevede
che si dichiari lo stato di emergenza nazionale. E stabilisce che può essere dichiarato in linea di massima
quando la situazione è caratterizzata “dall”inquinamento da altre sostanze nocive, con riferimento al grado di
minaccia per l’incolumità e la salute delle popolazioni rivierasche, oltre che per il presumibile grave danno
economico/ambientale (zone della costa di alto valore intrinseco, aree costiere particolarmente sensibili,
aree marine protette)”. Insomma, il re è nudo.