Il Manifesto
EXTRATERRESTRE
«Compost, la soluzione è naturale»
INTERVISTA. Secondo Fabio Musmeci, presidente dell’Aic, la soluzione più semplice per risolvere il problema dei rigiuti, anche a Roma, è il compostaggio: «Diffuso e di comunità è un omaggio alla ragione e all’ecologia»
Marinella Correggia
A Roma l’eterna crisi dei rifiuti ha finito per alimentare l’emergenza cinghiali, attirati dagli scarti organici – come se non bastassero topi e gabbiani. In un dettagliato articolo (pubblicato dal Centro per la riforma dello Stato e nello studio realizzato dall’Associazione italiana compostaggio, dall’Isde e dal Movimento Legge rifiuti zero), il ricercatore Fabio Musmeci, che dell’Aic è presidente, ha invocato l’applicazione di «un principio base della scienza moderna, noto come rasoio di Occam: ovvero non vi è motivo per complicare ciò che è semplice». La soluzione più semplice – ed economica – è il compostaggio, la tecnica per controllare, accelerare e migliorare il processo naturale aerobico (in presenza d’ossigeno) a cui va incontro qualsiasi sostanza organica in natura.
Musmeci, come riassume la non-gestione degli scarti organici nella capitale?
Da Roma, camion essenzialmente pieni d’acqua (il 70% dei rifiuti organici) viaggiano verso il nord per raggiungere impianti di trattamento. Attuali destinazioni, per quanto si riesce a sapere: Bioman (Pordenone), Sesa e Herambiente (Emila Romagna). L’impianto Ama di Maccarese (Fiumicino) funziona essenzialmente solo come «trasferenza» verso questi siti.
E come soluzione, il comune di Roma chiede i soldi del famoso Pnrr per costruire due grandi biodigestori: mega-opere per l’estrazione di gas a scopi energetici.
Fra le soluzioni possibili, compostaggio o biogas, preferisco di gran lunga la prima, che oltretutto è più economica. Ecco perché. Un digestore produce, oltre al biogas (per il 50% – in volume – si tratta di metano), il digestato: il residuo della digestione. Alcuni impianti, denominati integrati, fanno seguire alla digestione anaerobica un trattamento del digestato in modo da recuperare anche un po’ di materia. Nella scala gerarchica delle priorità nella gestione dei rifiuti, il recupero di materia viene prima del recupero energetico. Dunque, per essere preferibili, gli impianti di digestione devono essere accompagnati dalla successiva fase di compostaggio. Esistono infatti gli impianti integrati anaerobico-aerobico. Ma il loro recupero di materia è intorno al 16%: molto meno della metà di quanto ottenibile dagli impianti di solo compostaggio (per i quali il rapporto rifiuti dell’Ispra stima una resa media in ammendante pari al 43,7% di quello che entra). Se guardiamo a strutture reali, in quella di Sant’Agata Bolognese che l’amministrazione capitolina cita come esempio da imitare, la produzione di «ammendante compostato misto» (Acm) è inferiore al 14% di quanto ricevuto in input, secondo il Rapporto Rifiuti Ispra 2021. E non viene indicato, nel succitato rapporto, il destino del 44% (58.761 t/anno su 132.214 t/anno di rifiuto in entrata) classificato come scarto: probabilmente discarica o inceneritore. In altri termini, un impianto di biodigestione è il prodromo di destinazioni ormai inaccettabili. E non finisce qui. Naturalmente il sistema di raccolta è basato su grandi cassonetti stradali. Inoltre, le cifre dichiarate di produzione di metano sono ridicole rispetto ai fabbisogni presenti in un sistema (quello del gas) dal quale sarebbe il caso di uscire prima possibile. Sant’Agata Bolognese produce gas per poco più di 7.000 famiglie. Vi è poi la questione delle grandi dimensioni di questi impianti e dei relativi impatti. Infine, senza sovvenzioni i biodigestori non avrebbero una sostenibilità economica.
In omaggio alla prevenzione dei rifiuti, oltre a evitare gli sprechi alimentari si possono intercettare gli scarti organici senza che arrivino ai sistemi di gestione. Ci sono esempi virtuosi in grandi comuni?
Purtroppo non abbiamo visto recenti adozioni di piani per la riduzione del conferimento rifiuti. I sistemi di autocompostaggio (non solo il domestico ma anche quello adottabile da grandi produttori privati) non sono supportati. A Roma, l’Ama non distribuisce più (da qualche anno) le compostiere domestiche. Lo scarto organico può essere trattato localmente, presso lo stesso produttore (anche utenze non domestiche); oppure a livello di condominio, consorzio ecc. (compostaggio di comunità); oppure può essere raccolto e conferito a un piccolo impianto locale dallo stesso furgone di raccolta, evitando comunque il trasporto a un impianto remoto. Grandi comuni come Tivoli hanno coraggiosamente avviato il cammino virtuoso del compostaggio diffuso e di comunità. Invece le compostiere elettromeccaniche acquistate da Ama con il bando regionale del 2017 non sono state ancora poste in opera!
Il compostaggio è l’unico futuro eco-logico per gli scarti organici?
Sì. L’uso del bene che ne deriva, il compost, è importante non solo in agricoltura e nella florovivaistica, ma anche nella strategia complessiva di lotta al cambiamento climatico, nella sostituzione di materiale non rinnovabile (come la torba) o di prodotti agrochimici, nei sistemi di riduzione alla fonte dei rifiuti prodotti, nell’aumento della ritenzione idrica del suolo e nella lavorabilità dei terreni. La sfida è interna all’uscita dalla società della combustione (anche la combustione di risorse ritenute rinnovabili) e dell’usa e getta.
Ha spiegato molte volte che il piano nazionale di prevenzione dei rifiuti è vago e privo di obiettivi, e che le aziende leader fanno una politica basata su grandi impianti. Un comune come Roma, se volesse uscire dalla crisi, come dovrebbe fare?
Bisognerebbe insistere sulla raccolta «porta a porta» passando anche a una tariffa puntuale estesa all’organico. In questo modo, ognuno pagherebbe il servizio (numero di svuotamenti) che viene richiesto e si supporterebbe l’adozione dell’autocompostaggio e dei sistemi di essiccazione volti a diminuire la frequenza e i volumi da conferire. Per fortuna Acea si sta muovendo con il proprio progetto di compostaggio diffuso, intercettando il fabbisogno di grandi produttori. La principale difficoltà che si incontra è quella di accettare una visione moderna del servizio fatta essenzialmente della personalizzazione dell’offerta utilizzando una miriade di strumenti. Occorre un cambio di mentalità, un passaggio da un approccio capital intensive (pochi impianti con pochi operai) a uno labor intensive (molto lavoro di «cura» diffuso). Un confronto con il tema del lavoro che le grandi aziende faticano ad approcciare.