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Combustibile da rifiuti, alternativa possibile al fossile

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Il combustibile da rifiuti avrebbe le carte in regola per essere un sostituto “pulito” delle fonti fossili e una risposta all’eccessivo ricorso alle discariche. Potrebbe anche ridurre la dipendenza energetica del nostro paese. Eppure è poco utilizzato.

Una valida alternativa alle fonti fossili

Per mantenere gli impegni assunti, anche dal nostro paese, con l’Accordo di Parigi del 2015 sulle emissioni di gas serra, l’incremento della produzione di energia da fonti rinnovabili non sarà sufficiente. La via allo sviluppo sostenibile dovrà necessariamente passare per la decarbonizzazione dell’economia, per la quale è cruciale anche una gestione virtuosa ed efficiente dei rifiuti, soprattutto laddove la discarica è ancora oggi l’unico impianto a disposizione.

Il recupero dei rifiuti include la valorizzazione energetica, soprattutto per frazioni indifferenziate di solito destinate a smaltimento. Il combustibile solido secondario (Css), ottenuto dai rifiuti conferiti in discarica, può sostituire le fonti fossili (carbone, petrolio o gas naturale) con frazioni a basso contenuto di carbonio e allo stesso tempo può offrire una risposta alla cronica dipendenza del nostro paese dalle discariche. Se solo si adoperasse questo “carburante” più pulito per alimentare le attività produttive – soprattutto quelle industriali, oggi responsabili di una quota pari al 21 per cento delle emissioni globali – risparmieremmo tonnellate di CO2 e molti milioni euro.

Proprio per facilitare questo processo, nel 2013 è entrato in vigore il decreto ministeriale 22 che regolamenta l’impiego del Css: a determinate condizioni viene considerato addirittura end of waste, ossia non più un rifiuto, ma un combustibile a tutti gli effetti. Il decreto prevede la possibilità di impiego del Css solo per cementifici e centrali termoelettriche.

Benché facilmente producibile e valorizzabile, il Css è ancora scarsamente utilizzato, poco compreso e talvolta osteggiato. La stessa l’industria cementiera, che avrebbe tutta la convenienza a servirsene (oltre che l’autorizzazione a farlo), fino a oggi ha utilizzato pochissimo quello che è un combustibile di qualità e non più rifiuto. Eppure, i dati non lasciano dubbi: se si smettesse di usare fonti fossili per generare l’energia necessaria alla produzione del clinker nei cementifici passando al Css, avremmo 700 milioni di euro di risparmi e 10 milioni di tonnellate di CO2 in meno ogni anno.

Mancano gli incentivi

Ma quali sono gli ostacoli all’impiego del Css? Ecco i principali.

  • Complesse procedure e controlli per la produzione di Css combustibile, che sembrano pensate per scoraggiarne l’impiego. Solo il 13,8 per cento dei rifiuti urbani in uscita dagli impianti di trattamento meccanico-biologico Tmb (pari a 1,3 milioni di tonnellate) è inviato a ulteriori trattamenti quali la raffinazione per la produzione di Css o la biostabilizzazione (dati 2017).
  • Iter burocratici e autorizzativi lunghi e costosi che fanno desistere anche i potenziali utilizzatori. Ne sono esempi la procedura per il rinnovo e la revisione dell’autorizzazione integrata ambientale (Aia) e quella per l’ottenimento della valutazione impatto ambientale (Via).
  • La mancanza di un incentivo al suo utilizzo. Chi produce Css deve sostenere costi aggiuntivi per la sua raffinazione, ma i potenziali destinatari devono sobbarcarsi ulteriori oneri in termini sia di autorizzazioni che di controlli e preferiscono dunque continuare a bruciare fonti fossili, tanto più che possono contare su minori limiti di emissione (rispetto al Css).
  • L’assenza di un mercato in grado di esprimere un prezzo. Intanto, esistono due tipi di Css: uno che viene definito rifiuto e un altro che, invece, è considerato non-rifiuto (ovvero il Css combustibile). Se il primo rimane un costo per chi lo detiene, il secondo assume la qualifica di valore. Ma se i potenziali utilizzatori possono farsi addirittura pagare per bruciare il primo (Css rifiuti) perché dovrebbero pagare per usare il secondo (Css combustibile), anche se si tratta di un combustibile di migliore qualità? Senza incentivi, ricadiamo pienamente in un caso concreto di fallimento di mercato.

Incide poi anche l’opposizione dei “comitati del no” che, spesso poco informati o disinformati, sono sempre pronti a opporsi a ogni iniziativa, anche quando è chiarissimo che dalla sostituzione del pet coke con Css combustibile la salute avrebbe da guadagnarne. Un’opposizione che trova sovente una sponda negli amministratori locali, timorosi di perdere consenso.

Il Css combustibile avrebbe tutte le carte in regola per essere una risposta all’eccessivo ricorso alla discarica nel nostro paese (vi finiscono ancora circa 7 milioni di tonnellate di rifiuti urbani) e un valido sostituto dei combustibili fossili. Non solo. Può contribuire a ridurre la nostra dipendenza energetica, visto che siamo importatori netti di carbone e pet coke. Ecco perché la “decarbonizzazione” a costo zero passa anche da qui.

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