Italia Oggi
Chicco Testa: è urgente una strategia nazionale sui rifiuti e la transizione ecologica
I tabù dell’integralismo green
E i rifiuti dei malati Covid così vanno in discarica
di Carlo Valentini
«Il governo deve avviare una strategia nazionale di gestione dei rifiuti, parallela a quella energetica. L’emergenza ha confermato la disomogeneità tra le regioni nella raccolta e trattamento. Servono impianti di recupero (di materia e di energia) capaci non solo di sostenere il flusso delle raccolte differenziate ma anche di sopportare fasi di crisi e servono impianti di smaltimento finale, capaci di gestire i rifiuti residuali. Un investimento complessivo che abbiamo quantificato in 10 miliardi di euro. Non si tratta di far lievitare la spesa pubblica ma di obiettivi raggiungibili con un mix di finanza privata e incentivi statali. Più che contributi a fondo perduto servono strumenti economici moderni (incentivi, disincentivi, tasse) capaci di orientare gli investitori a realizzare gli impianti necessari in un quadro di certezza economica e legale. Indispensabile è una drastica semplificazione delle autorizzazioni e degli appalti».
Chicco Testa, 71 anni, bergamasco, laurea in filosofia, due legislature in parlamento (nel Pci e nel Pds), ex presidente di Legambiente e di Enel, è oggi presidente di Assoambiente, che raggruppa le imprese private che gestiscono servizi ambientali, dalla raccolta e smaltimento dei rifiuti alle bonifiche e trattamento delle acque.
Dice: «Il Recovery Plan dovrebbe servire anche a rendere il nostro Paese più indipendente dagli approvvigionamenti dall’estero di materie prime ed energia, sostituendole il più possibile con quelle recuperate dai rifiuti. Per ottenere questo bisogna costruire un sistema di gestione dei rifiuti più autosufficiente e funzionale, rendendo il riciclo meno esposto ai cambiamenti del mercato e agli shock esterni, come purtroppo è accaduto in questo periodo di pandemia».
Domanda. Quali problemi ha creato l’emergenza Covid alla gestione dei rifiuti?
Risposta. Durante il primo anno di pandemia si sono registrate flessioni nel conferimento da parte degli utenti non domestici, costretti alla chiusura e invece aumenti della produzione dei rifiuti provenienti da utenti domestici. L’emergenza Covid ha reso ancora più evidenti le criticità che la politica da troppo tempo ignora. Per esempio i rifiuti provenienti da nuclei domestici con soggetti malati o in quarantena che dovevano essere avviati all’ incenerimento sono stati al contrario conferiti in discarica in alcune regioni, per mancanza di alternativa. Inoltre c’è il tema del sostegno agli sbocchi di mercato per i materiali recuperati per ovviare alla drastica riduzione, in seguito al lockdown, della capacità di assorbimento da parte delle industrie utilizzatrici.
D. In che modo fare diventare i rifiuti una risorsa?
R. Smettendo di considerare i rifiuti come problema. A monte dei processi produttivi vanno realizzati prodotti facilmente riciclabili e su questo c’è un impegno della Commissione europea nel Piano di attuazione dell’economia circolare. Poi occorre una buona raccolta differenziata e un buon sistema di selezione e riciclo. Infine, a valle, vanno incentivati i prodotti di riciclo e l’uso di materie prime seconde, anche attraverso gli acquisti verdi della pubblica amministrazione.
D. Quindi bisogna puntare con forza sul riciclo.
R. Il riciclo, dopo la prevenzione ed il riutilizzo, rappresenta la risposta più importante per l’avvento dell’economia circolare. In Italia sono in funzione 7.200 impianti di riciclo che occupano 135 mila addetti. Ma non bastano. Inoltre bisogna tenere presente che da 100 kg di rifiuti di carta/cartone si ottengono circa 90 kg di carta riciclata e 10 kg di scarto. Per vetro, plastica e legno la resa media si aggira tra il 75 e l’80%. Risulta quindi che pur indirizzando quantitativi sempre maggiori verso il riciclo, si dovrà tenere in considerazione l’aspetto della resa e la necessità di gestire anche l’inevitabile correlato incremento degli scarti.
D. Come si colloca l’Italia nella gestione dei rifiuti rispetto agli altri Paesi europei?
R. L’Italia è il primo Paese europeo per tasso di riciclo grazie all’ottimo risultato nel settore speciali (circa 70%) e dei rifiuti urbani (circa 50%). Ma nonostante ciò conferisce ancora troppi rifiuti in discarica e ne esporta troppi, per mancanza di impianti di recupero energetico. Questo è il punto più critico. Che senso ha questo fiume di denaro che va all’estero, assieme ai rifiuti, perché non riusciamo a gestirceli in casa?
D. Colpa dei comitati del no?
R. I comitati che si oppongono alla realizzazione degli impianti rappresentano minoranze di cittadini che difendono interessi specifici (valore degli immobili) o si tratta di gruppi integralisti con una forte vocazione conflittuale ed identitaria. Il cortocircuito istituzionale nasce dall’atteggiamento dei decisori politici locali (ma anche regionali e nazionali a volte) che sposano la causa dei piccoli comitati, confidando di raccogliere consensi elettorali, rinunciando a difendere l’interesse generale per calcoli miopi di breve periodo.
D. La situazione dei rifiuti a Roma e in altre parti del Paese è proprio irrisolvibile?
R. La situazione delle aree critiche del Paese (Roma, Sud Italia, ma anche in parte Toscana e Liguria) è risolvibilissima, così come è stata risolta nelle altre aree del Paese. Serve che la politica finalmente decida sugli impianti e alle imprese spetta la capacità organizzativa e gestionale. Non è immaginabile, né spiegabile, che all’interno di uno stesso Paese ci siano situazioni cosi diversificate. Inoltre vanno superati alcuni tabù
D. Quali tabù?
R. Si assiste a fughe in avanti che risultano controproducenti e finiscono per ostacolare la svolta green. Per quanto riguarda l’idrogeno, per esempio, va bene lo sforzo per migliorare tecnologie e costo dell’idrogeno cosiddetto verde, che oggi costa 7 volte di più del cosiddetto idrogeno blu a parità di emissioni, ma non capisco perché dovremmo scartare, intanto, questa seconda tecnologia. Stesso discorso per la produzione di energia elettrica con il gas. Ancora per un lungo periodo avremo bisogno di impianti che compensino l’intermittenza delle principali fonti rinnovabili e costituiscano una valida alternativa al carbone. Guai a chiudere gli occhi, come qualcuno fa, su questo aspetto. Poi vi è la rete di distribuzione elettrica, che ha conosciuto negli ultimi 10/15 anni un cambiamento radicale. Da strumento passivo di trasmissione dell’energia verso gli utenti finali è oggi una struttura attiva per i molteplici scambi di energia che coinvolgono centinaia di migliaia di produttori-consumatori che immettono in rete energia prodotta da impianti rinnovabili. Con la nascita delle comunità energetiche questo aspetto è destinato ad aumentare ulteriormente. È chiaro che si pone il problema della governance della distribuzione, che non può più essere determinata da chi occupa posizioni dominanti sul mercato.