Greenreport
A parole lo sviluppo sostenibile piace a tutti, ma intanto in Italia “non sono previsti percorsi prioritari per progetti di transizione energetica” e “a causa della mancanza di impianti per la gestione di rifiuti sono in aumento le quote esportate”
Di Luca Aterini
Il comitato di esperti guidato dall’ex ad di Vodafone Vittorio Colao ha presentato al premier Conte il proprio dossier con 121 schede di proposte, nato per delineare una strategia di ripresa post-pandemica traguardando “Un’Italia più forte, resiliente ed equa”. Un’insieme di idee – cui hanno collaborato anche personalità di primo piano in fatto di sostenibilità, come la presidente del Wwf Donatella Bianchi e il portavoce dell’ASviS Enrico Giovannini – che scommette con decisione su un’economia più verde e digitale.
Per quanto riguarda in particolare la green economy, le proposte d’interesse sono molteplici, e spaziano dall’introduzione di una carbon tax alle necessità di chiudere davvero il cerchio dell’economia circolare, passando per una drastica semplificazione nell’iter per la realizzazioni di impianti utili allo sviluppo sostenibile del Paese. Un buon punto di partenza, banalmente, è riconoscere con onestà le profonde lacune che ancora frenano questo percorso.
Nel piano Colao, ad esempio, si spiega che la durata dell’iter autorizzativo di infrastrutture energetiche è in Italia superiore alla fase realizzativa degli impianti stessi (fino a 7 anni per i progetti più onerosi); che attualmente non sono previsti percorsi prioritari per progetti di transizione energetica, limitando di fatto il raggiungimento degli obiettivi previsti dal Piano nazionale integrato energia e clima (Pniec); che la pandemia Covid-19 rischia di rallentare la realizzazione dei progetti di transizione energetica, esponendo il sistema Paese ad un rischio climatico e competitivo a lungo termine; che la gestione dei rifiuti e delle attività di depurazione dell’acqua non è equamente sviluppata sul territorio nazionale e non soddisfa per la maggior parte dei casi le direttive Cee imposte dall’Ue (e.g, direttiva 91/271/Cee per la depurazione) esponendo lo Stato ad avvisi reiterati che si traducono in sanzioni pecuniarie e processi di moratoria; che ogni anno l’Italia genera circa 170 Mln di tonnellate di rifiuti in continua crescita (2-3x vs crescita Pil nel ’19), e a causa della mancanza di impianti per la gestione di rifiuti sono in aumento le quote esportate (+15%, di cui ca.40% esportato in Paesi del Far-east).
Partendo da questi dati di fatto, le proposte messe in fila sono molte e rilevanti: tra queste è bene sottolineare la necessità di definire un piano a lungo termine di decarbonizzazione ed esplicito obiettivo di carbon neutrality, come da linee guida europee e sul modello di altri Paesi; istituire una fiscalità energetica con “carbon tax”, che fissi il prezzo minimo del carbonio e disincentivi le imprese più inquinanti; sviluppare un piano strategico specifico per l’economia circolare sul modello della transizione energetica comprensivo di norme, incentivi e fondi per la gestione e il riciclo dei rifiuti urbani e industriali (come del resto chiedono da tempo le aziende di settore riunite in Assoambiente e in Utilitalia).
Per raggiungere obiettivi simili, molte delle necessità sono a costo zero per lo Stato, implicando “solo” un processo di robusta semplificazione normativa (o di effettiva applicazione di quelle esistenti). Ad esempio: ridurre i tempi e semplificare i procedimenti di valutazione di impatto ambientale (VIA), all’interno della procedura di AU, e rafforzare gli appalti verdi della PA (green public procurement), aggiornando i criteri ambientali minimi (CAM) seguendo i principi di circolarità. È sempre in quest’ambito che ricade la proposta di drastica semplificazione del Codice degli appalti, rivedendo integralmente il Codice dei contratti pubblici e applicando tel quel alle infrastrutture di interesse strategico le direttive europee, integrandole per le sole porzioni in cui non sono auto applicative.
Per quelle misure che non sono a costo zero, in molti casi il finanziamento è però demandato a risorse pubbliche. Dove trovarle? La chance migliore che abbiamo per recuperarle è attraverso le strumento Next Generation Eu proposto dalla Commissione Ue, condizionato però alla necessità di presentare – già in autunno – un piano nazionale dettagliato di proposte, incentrato proprio sull’economia verde e digitale.
Come dichiarato dalla stessa Commissione Ue e riassunto dall’ex ministro dell’Ambiente Ronchi, a livello comunitario il fabbisogno di finanziamenti annui per la “trasformazione green” è misurato in 470 miliardi, così suddivisi: 30 per le rinnovabili, 190 per l’efficienza energetica, 120 per la mobilità sostenibile, 77 per altre misure per il clima e l’ambiente e 53 per l’economia circolare e la gestione delle risorse. Una parte significativa di queste risorse dovranno essere messe in campo in Italia, e se il nostro Paese non vorrà lasciarsele sfuggire servirà qualcosa di più che un insieme di (pur buone) idee.