Più dell’80% dei rifiuti che vengono gettati nel Mediterraneo è plastica. Secondo l’ultima analisi del Wwf, sono 229mila tonnellate all’anno, l’equivalente di 500 container. L’Italia è responsabile di un sesto di questo sfregio. Ma nello stesso tempo siamo anche il Paese leader della tecnologia con cui affrontare una parte del problema: è italiana la ricerca all’avanguardia nel mondo sulle plastiche compostabili.
Il problema è che la tecnologia da sola non basta. Leggi, industrie e scelte individuali devono procedere assieme per risolvere il problema. Vediamo quali di questi tasselli stanno andando al posto giusto. Dal punto di vista dei comportamenti la sensibilità è cresciuta, ma la quota di chi, per errore o per incuria, continua a buttare plastica in giro è ancora troppa alta. C’è un miglioramento, ma non basta. Dal punto di vista della normativa invece l’Unione Europea ha dato un buon impulso al processo d’innovazione nel campo dell’economia circolare. Ad esempio ha fissato una serie di paletti restrittivi: dal tetto al 10% per i rifiuti urbani ammessi in discarica all’obbligo in tutti i Paesi della raccolta differenziata della frazione umida entro la fine del 2023. E l’attesa per la crescita delle vendite dei sacchetti necessari a questa raccolta ha già portato a un’impennata di richieste di bioplastica: la domanda europea è aumentata in un anno del 23% passando dalle 210mila tonnellate del 2019 alle 320mila del 2021.
Il terzo attore della partita per tornare ad avere un buon rapporto con la plastica sono le industrie. E l’Italia in questo campo svolge un ruolo particolare perché è leader mondiale nel settore delle bioplastiche: con 125mila tonnellate di produzione e un fatturato che nel 2021 ha superato per la prima volta il miliardo di euro, controlla il 57% del mercato europeo.
Del resto già nel 2011 il nostro Paese aveva fatto da apripista per gli shopper compostabili. E l’Unione Europea, dopo un primo momento d’incertezza, aveva seguito. Con vantaggi che, a distanza di un decennio, sono innegabili. La percentuale di produzione di sacchetti illegali in plastica non compostabile, che è in buona parte legata alla criminalità organizzata, si è ridotta al 20%. E la maggiore attenzione attorno a questo momento della spesa ha moltiplicato gli usi alternativi all’acquisto degli shopper, che nel 2021 sono diminuiti del 58% rispetto al 2010.
Ora, a un decennio di distanza dalla battaglia per gli shopper compostabili, inizia il secondo round. Questa volta l’uso di sacchetti di plastica biodegradabile è legato non alla spesa ma al lato opposto del ciclo di consumo del cibo: la pattumiera. L’Italia ha anticipato di due anni l’obbligo della raccolta della frazione umida dei rifiuti organici provenienti dal circuito urbano (siamo partiti a fine 2021) anche perché in questo campo abbiamo una posizione di leadership: il 42% del totale della raccolta differenziata è dato dalla frazione dell’umido, con Milano che è in cima alla classifica europea.
“L’Italia è stata anche la prima in Europa ad allargare a questo settore il concetto di responsabilità estesa del produttore facendo nascere due anni fa il nostro consorzio, dedicato alla raccolta delle plastiche compostabili”, aggiunge Gino Schiona, direttore di Biorepack. “In questo modo si è resa evidente la posizione di eccellenza raggiunta in tutti gli snodi della filiera che si apre con la raccolta di biomasse e si chiude con la produzione di biopolimeri e il compostaggio industriale che permette di ottenere un fertilizzante naturale, in alternativa a quelli chimici, capace di restituire elementi nutritivi al suolo da cui ottenere nuove biomasse. Ma nell’ottica della bioeconomia circolare si stanno aprendo altre nuove frontiere, ovvero le bioraffinerie per estrarre vere e proprie materie prime dai rifiuti e sottoprodotti organici. Un percorso che abbiamo potuto fare anticipando i nostri competitor perché l’Italia è un hub importantissimo sia per la ricerca che per l’applicazione di queste nuove tecnologie”.
Novamont ha inaugurato già nel 2016 in Polesine, a Bottrighe, il primo impianto al mondo di produzione di butandiolo da sostanze zuccherine. “È un esempio di una struttura produttiva che usa batteri per produrre plastiche bio innovative”, continua Schiona. “E abbiamo anche esempi sia di imprese, come Misura e Agnesi, che hanno riconvertito gli impianti per utilizzare imballaggi in plastica compostabile, sia di catene di grande distribuzione, come Coop ed Esselunga, che si sono mosse sulla stessa lunghezza d’onda”.
In questo quadro resta un nodo critico. La direttiva SUP che mette al bando vari oggetti usa e getta in plastica (piatti, bicchieri, posate, cotton fioc) è stata applicata dall’Italia lo scorso anno con una deroga per la bioplastica compostabile. Deroga criticata da alcune associazioni ambientaliste. “Già dieci anni fa, all’epoca dei primi shopper in plastica compostabile, l’Italia diede il via libera con una deroga e poi l’Unione Europea si adeguò perché i vantaggi risultavano evidenti”, risponde Stefano Ciafani, presidente di Legambiente. “Ora lo schema si ripete. I Paesi che hanno imprese meno avanzate in questo campo fanno resistenza. Ma la deroga è legittima per tre motivi. Perché l’Italia ha un livello d’eccellenza per la raccolta della frazione umida dei rifiuti, più alto di quello della Germania. Perché abbiamo un conseguente sistema di trattamento basato sulla digestione anaerobica e sul compostaggio. E perché è italiana la più importante filiera di chimica verde al mondo che chiude il ciclo. La deroga è legittima perché alimenta un mercato virtuoso”.
E i problemi segnalati da alcuni titolari di impianti di compostaggio che denunciano i tempi più lunghi di degradazione di piatti e bicchieri di plastica compostabile? “Certo, un piatto di plastica compostabile si degrada più lentamente di una buccia di patata o di una fettina di pollo, ma sta comunque nei tempi indicati dalla normativa”, continua Ciafani. “E poi il problema ha un soluzione semplicissima: basta un sistema di vagliatura a fine ciclo per selezionare gli elementi che non hanno completato il ciclo di degradazione in tempi accelerati e riportarli a inizio percorso per un secondo giro”.