Il patrimonio
Pochi si rendono conto di quanto sia vasto e ricco il patrimonio nascosto dei rifiuti urbani e industriali. Anche ciò che famiglie e imprese buttano via è rinnovabile. Renato Mazzoncini, amministratore delegato di A2A, spiega che dei 1320 Terawattora consumati ogni anno dal nostro Paese, solo il 20 per cento è sotto forma di elettroni, il resto è molecola, cioè gas e petrolio. I rifiuti hanno questa doppia virtù. Aumentano l’offerta di elettricità, attraverso i termovalorizzatori, e di molecole, con il trattamento dell’umido e degli scarti agricoli. «Il nostro Paese — spiega Mazzoncini — può arrivare a produrre da rifiuti umidi e matrici agricole fino a 10 miliardi di metri cubi all’anno di biometano, circa un terzo di quanto importiamo oggi dalla Russia». Senza tra l’altro discutere di trivelle, ma accettando però qualche termovalorizzatore o impianto di gestione dei rifiuti organici in più. Questo è il vero problema.
Ma davvero lo è? Nei giorni scorsi, a testimonianza di una svolta in atto, è accaduto un fatto politicamente non trascurabile. Si è rotto un tabù. Il sindaco di Roma, Roberto Gualtieri, è favorevole alla costruzione, nel perimetro della capitale, di un termovalorizzatore. Alla buon’ora. Oltre a mettere fine alla vergognosa (e costosa) esportazione dei rifiuti — che inquinano altrove ma, soprattutto all’estero, producono reddito — l’impianto che dovrebbe essere realizzato per il Giubileo del 2025, fornirebbe energia a 150 mila famiglie romane. Gualtieri ha contro i Cinquestelle e gli ambientalisti che avversano quello che chiamano un inceneritore. Sostengono, giustamente, la raccolta differenziata che, nella capitale, però è su livelli modesti (43,75 per cento nel 2020 secondo i dati Ispra). E temono che costruendo un termovalorizzatore l’incentivo a farla diminuisca.
Come fanno gli altri
Ma tutti gli esempi stranieri più efficienti dimostrano che il recupero energetico va di pari passo con quello delle materie da riutilizzare. Oggi siamo comunque, in Italia, ben lontani dagli obiettivi europei del cosiddetto Pacchetto economia circolare. Ovvero l’80% di raccolta differenziata (la media nazionale è al 63) da raggiungere entro il 2035 per rendere possibile il 65% di riciclo dei materiali. Aggiunge Fulvio Roncari, amministratore delegato di A2A Ambiente: «Noi mettiamo sotto terra ogni anno, in discarica, o mandiamo all’estero per la nostra incapacità di trattarli, rifiuti urbani per 5,5 milioni di tonnellate e rifiuti speciali non pericolosi prodotti dalle aziende per 6 milioni di tonnellate. Se l’Italia si dotasse degli impianti di termovalorizzazione necessari per trattarli, sarebbe in grado di produrre 10 mila 800 Gigawattora l’anno pari al fabbisogno di circa 4 milioni di famiglie». Se A2A — ma il ragionamento vale per altre grandi utility — rinunciasse per esempio al termovalorizzatore di Brescia, oltre a non assicurare più il riscaldamento a 50 mila famiglie, per produrre la stessa quantità di energia sarebbero necessari 6 milioni di metri quadrati di pannelli solari. Gli obiettivi europei consentirebbero di lasciare in discarica il 10 per cento dei rifiuti urbani (oggi siamo al 20). L’Italia però dovrebbe puntare all’1 per cento, il livello di Paesi più avanzati. Una garanzia in più per il fronte ambientalista. Gli impianti attuali andrebbero almeno raddoppiati. Investimento previsto per sfruttare il biometano è di 2,2 miliardi. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) assegna 1,5 miliardi agli impianti di recupero.
Educazione civica
La mossa di Gualtieri riporta d’attualità un tema di educazione civica e di senso di responsabilità da parte delle amministrazioni e delle comunità locali. Chi crea rifiuti deve sentire il dovere di raccoglierli bene e — a maggior ragione nella nuova situazione di carenza di materie prime e di prezzi alle stelle — di riciclarli al meglio. Scaricali altrove è irresponsabile, persino vile. L’ultima edizione del Green Book di Utilitatis, citato da Giorgio Santilli su Il Sole 24 Ore, rivela che vi sono troppe comunità regionali, specie al Centro Sud, che trattano meno rifiuti di quanto ne producano.
Non ci sono più scuse. L’Italia nell’economia circolare — è bene ricordarlo — fa meglio di tanti altri Paesi. Per esempio nel ferro, nell’alluminio e nel rame. Oltre al vetro, la carta, il legno e la plastica (la cui parte non riciclabile plasmix è combustibile). Ma oggi si può e si deve fare ancora di più. «Noi siamo bravi nel recuperare l’alluminio dalle lattine — precisa Duccio Bianchi, ricercatore di Lega Ambiente — ma non dai molti oggetti domestici che spesso ingombrano inutilmente le nostre case. E finiscono nei ripostigli. C’è tanto più alluminio nelle caffettiere, nelle pentole, anche in quelle al teflon. Dovremmo pensare seriamente a istituire una giornata nazionale di raccolta di tutti gli oggetti che contengono metalli rari, come il litio».
Esiste un consorzio nazionale, impegnato su questo fronte, ed è il Raee (Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche). Dando un’occhiata ai dati della raccolta pro capite nel periodo 2019-2021 si vede, per esempio, che nel recupero è in testa la provincia di Matera. Ci sono primati anche al Sud. Con i prezzi di alcuni metalli non ferrosi alle stelle, alcuni procedimenti di riciclaggio ed estrazione sono diventati economici. Conta ovviamente la dimensione degli operatori. Ed è un limite storico.
La congiuntura
La nuova congiuntura economica ed energetica rilancia anche il ruolo del cosiddetto Combustibile solido secondario (Css) che si ricava dalla componente secca (plastica, carta, fibre tessili, ecc.) dei rifiuti non pericolosi sia urbani sia derivanti dalla separazione di altri materiali come vetro e metalli inerti. Ma, nonostante siano passati otto anni dal Decreto Clini, il Css-combustibile nella sua versione più nobile, cioè classificato come «non rifiuto», end of waste, viene impiegato assai poco in sostituzione dei carburanti fossili. «È assolutamente uno spreco — è il giudizio di un esperto del settore come Carlo Cattaneo — che si usi il Css solo nella sua versione non raffinata. Eppure è essenziale per decarbonizzare soprattutto quella filiera industriale, in particolare i cementifici ma non solo, ritenuta hard to abate, ovvero meno adattabile, nella quale è più difficile ottenere forti abbattimenti della CO2. Che cosa frena l’utilizzo del Css end of waste, cui si preferisce la versione più sporca? Gli impianti devono essere ovviamente riadattati, le autorizzazioni vengono rilasciate a rilento. Alla fine, si arriva sempre a questo punto, al blocco burocratico. Anche se spesso è un alibi per aspettare, non investire, tirare avanti. Ma mai come in questo momento, un cambio di passo, anche etico e non soltanto economico, è necessario, indispensabile.