Allarme discariche, piene in tre anni

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Allarme discariche, piene in tre anni

Il Sole 24 Ore

Allarme discariche, piene in tre anni

Emergenza rifiuti. La capacità residua delle discariche italiane è in esaurimento mentre il Paese è fermo nella realizzazione dei nuovi impianti di trattamento e termovalorizzazione. In sei mesi previsto caos in Sardegna, in Sud Italia a fine 2022

Jacopo Giliberto

Tre anni e saranno piene a tappo le discariche in cui gli italiani continuano a rovesciare il 21% dei loro 30 milioni annui di tonnellate di spazzatura domestica. Come sempre, i tre anni sono una media avicola trilussiana che appiana le differenze: nel Mezzogiorno — dove scarseggiano gli impianti di ricupero e dove abbonda la tecnologia di smaltimento basata sul riempire di spazzatura un buco del terreno — le discariche saranno piene nel giro di un anno e mezzo, mentre nell’Alta Italia la capienza sarà finita in 4,5 anni. Casi estremi, la Sicilia (58% dei rifiuti in discarica) e la Sardegna (le discariche rigurgitano e hanno ancora spazio per i rifiuti di appena sei mesi).

Fonte: «Da Nimby a Pimby, Economia circolare come volano della transizione ecologica e sostenibile del Paese e dei suoi territori», position paper 2021 dell’A2A voluto dall’amministratore delegato Renato Mazzoncini e realizzato in collaborazione con The European House–Ambrosetti e coordinato da Valerio De Molli. Lo studio verrà presentato durante il forum di The European House-Ambrosetti in corso fino a domenica a Villa d’Este a Cernobbio (Como).

Altri numeri dell’emergenza ambientale prossima ventura tratti dalla ricerca.

L’Europa dice che entro il 2035 bisogna riciclare il 65% dei rifiuti e la discarica non deve superare il 10%. Per allinearsi con la media europea di uso della spazzatura come fonte di energia alternativa ai combustibili fossili, l’Italia dovrebbe usare altri 3,1 milioni di tonnellate di rifiuti urbani, pari al 53% in più di oggi; cioè servirebbero 6 o 7 nuovi impianti di riutilizzo energetico con un investimento tra 2,2 e 2,5 miliardi di euro.

Capitolo biometano, per il quale proprio ieri l’Europa ha dato il pieno via libera come forma evoluta di riciclo rinnovabile dei rifiuti. La frazione organica della spazzatura (scarti alimentari e così via) e i fanghi dei depuratori (ottimo concime) finiscono troppo spesso in discarica oppure vengono sprecati bruciandoli nei termovalorizzatori. Fermentati, potrebbero produrre metano ma gli impianti vengono paralizzati dalle proteste di sedicenti “ecologisti”, i comitati Nimby di opposizione locale. «Il Paese avrà la necessità di trattare ulteriori 3,2 milioni di tonnellate di frazione organica, pari al 50% in più dei volumi attualmente trattati, con un fabbisogno impiantistico di 38 nuovi impianti, di cui oltre l’80% nei territori del Centro-Sud, per un investimento complessivo di circa 1,3 miliardi di euro», riferisce lo studio, cui sommare quelli per i fanghi dei depuratori, non meno di 700 milioni. Più furbamente, dalla frazione organica aggiuntiva si potrebbero estrarre 768 milioni di metri cubi di metano di origine non fossile.

In molti hanno misurato in soldi il costo ambientale ed economico di questo divario impiantistico, e il beneficio che se ne trarrà quando (se) il divario verrà colmato. Le ricerche del Cesisp Bicocca con Massimo Beccarello e Giacomo Di Foggia, dell’Althesys di Alessandro Marangoni, dell’Agici del compianto Andrea Gilardoni, dell’Utilitalia e di altri think tank e organizzazioni giungono a risultati molto vicini. Dicono A2A e Ambrosetti nel position paper: se questo divario impiantistico venisse riempito più velocemente di quanto stiamo riempiendo le discariche, l’investimento complessivo fra i 4 e i 4,5 miliardi potrebbe attivare fino a 11,8 miliardi di euro di indotto economico, con un gettito per lo Stato di 1,8 miliardi e una riduzione della tassa sui rifiuti per le famiglie italiane superiore a 550 milioni di euro. Per quanto riguarda i benefici ambientali, un’efficiente gestione del ciclo dei rifiuti porterebbe — beneficio impalpabile ma importante — a una riduzione di circa 3,7 milioni di tonnellate di emissioni di CO2, cioè come se di colpo l’Italia smettesse di produrre tutta l’anidride carbonica che si sviluppa dalla produzione di metalli, ferro e acciaio.

Molti teorici del velleitario “rifiuti zero” protestano contro gli impianti per riciclare la spazzatura, per riutilizzare i rifiuti in sostituzione di combustibili fossili, per estrarre metano rinnovabile dai rifiuti putrescibili. Analizza il position paper: «Quel che tiene bloccato questo comparto è una cultura diffusa avversa alle infrastrutture e che coinvolge decisori, corpi intermedi e semplici cittadini: la sindrome Nimby che si traduce nel rallentamento degli iter autorizzativi degli impianti. Nei pochissimi impianti di trattamento dei rifiuti avviati negli ultimi anni, infatti, oltre il 60% del tempo di realizzazione è impiegato nella fase di progettazione e autorizzazione, si tratta cioè per lo più di tempi morti dovuti al rinvio di pareri tra enti, mancanza di termini perentori, sovrapposizione di competenze tra Comuni, Provincie e Regioni».

Qualche cenno alle cronache locali. Napoli (che da anni paga ogni giorno 120mila euro di multa europea) vuole aiutare l’emergenza rifiuti di Roma ricevendone circa 180 tonnellate al giorno di spazzatura, da frullare negli impianti Stir e da esportare in impianti all’estero. La Sicilia, dove ci sono alcuni dei Comuni più virtuosi nella raccolta differenziata, è schiava delle discariche per il 58% dei suoi rifiuti e da anni tenta di dotarsi di impianti di ricupero o di riciclo, come quello di San Filippo del Mela (Messina) bocciato da ecologicissimi comitati Nimby e solertissimi dirigenti pubblici.

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