Allargare il dibattito (e poi decidere) contro la sindrome Nimby che blocca la sostenibilità

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Allargare il dibattito (e poi decidere) contro la sindrome Nimby che blocca la sostenibilità

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Allargare il dibattito (e poi decidere) contro la sindrome Nimby che blocca la sostenibilità

I servizi pubblici locali hanno dimostrato tutta la loro essenzialità durante la pandemia, e da qui passa oggi la strada per la ripresa. Eppur le contestazioni sono tra i principali freni allo sviluppo

Di Luca Aterini

In attesa che dal Governo arrivi un segnale chiaro sulle opere da inserire nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) per la ripresa post-Covid, che dovranno guidare il Paese attraverso un percorso di sviluppo non solo economicamente ma anche ambientalmente e socialmente sostenibile, un ostacolo certo si prospetta già all’orizzonte: la sindrome Nimby (e Nimto, non nel mio mandato elettorale) che figura tra i principali ostacoli a qualsiasi prospettiva di transizione ecologica.

Da ultimo il problema si è conquistato la ribalta nell’incontro Presto e bene. La transizione ecologica dai progetti ai cantieri, cui oltre al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani hanno partecipato i vertici di Ispra, Iss, Legambiente e Confindustria. «Oltre alle semplificazioni autorizzative e ai colli di bottiglia normativi – osserva nel merito Stefano Ciafani, presidente del Cigno verde – dobbiamo fare in modo che con le migliaia di nuovi cantieri non si inauguri una stagione di guerre civili per le contestazioni sul territorio».

Un rischio più che concreto, purtroppo. L’ultimo censimento condotto sui fenomeni Nimby parla di 317 opere di interesse pubblico bloccate lungo lo Stivale, e il  comparto industriale più contestato è proprio quello energetico (57,4%) con le opposizioni orientate in maniera preponderante verso gli impianti da fonti rinnovabili (55 quelli contestati, il 73,3% sul totale del comparto); a seguire il settore dei rifiuti (35,9%) e il comparto infrastrutturale (5,9%). Come uscirne?

Il laboratorio Ref Ricerche, in una recente analisi dedicata al tema, pone l’accento sullo strumento del dibattito pubblico. In primis come mezzo per ricreare fiducia tra istituzioni, aziende proponenti e oppositori. Perché il nodo della questione passa proprio da qui: dalla fiducia.

«Questa diffusa tendenza al Nimby, a preferire il “no” e a propendere per il rifiuto o la chiusura, ha sfumature e origini diverse – spiegano dal Ref ricerche – Tutte hanno in comune l’avversione al cambiamento; alcune si radicalizzano e si esasperano fino a condurre alla completa immobilità (“meglio non fare nulla”) o all’opposizione nei confronti di ogni progresso tecnologico, ambientale, sociale. Nel Nimby confluiscono e dal Nimby partono – modificati – elementi che hanno a che vedere anche con la costruzione dei tratti identitari di individui e popoli. Per esempio, il mantenimento dell’esistente è un valore piuttosto radicato e coltivato nella cultura italiana […] L’opposizione al nuovo, al moderno, al cambiamento (per l’appunto), si trasforma in un elemento attraverso il quale identificarsi come individuo e come parte di una comunità. Grazie ad esso, infatti, è possibile, al contempo, riconoscere i propri “simili” e “amici” a cui unirsi e individuare i “diversi” e “nemici” contro cui opporsi. Un elemento fermo e stabile sul quale costruire la propria identità (sociale sicuramente, ma anche privata) e una chiave di lettura immediata e a buon mercato della realtà».

Per restituire alle opere pubbliche la complessità che meritano, una strada può essere appunto quella del dibattito pubblico. Mutuato dall’esperienza francese degli anni Novanta e introdotto nel panorama normativo italiano con il Dpcm 76/2018, le sue potenzialità – e criticità – rimangono tutte da esplorare. «L’esperienza del dibattito pubblico – aggiungono dal Ref – dovrebbe aiutare anche a identificare alcuni insegnamenti o linee guida utili a superare una parte dei 317 Nimby ad oggi documentati nei confronti di piccole e grandi opere sul territorio nazionale. Basti pensare alle infrastrutture legati ai servizi idrico e dei rifiuti. Se è, infatti, vero che le soglie indicate dal Dpcm escludono dal dibattito pubblico la grande maggioranza degli interventi nei servizi pubblici locali, tuttavia queste opere spesso presentano un livello di complessità non dissimile da quello delle grandi infrastrutture».

Per favorire il superamento dei Nimby che bloccano lo sviluppo delle opere necessari allo sviluppo dei servizi pubblici locali – che durante la pandemia hanno mostrato tutta la loro essenzialità –, il Ref suggerisce l’evoluzione della norma sul dibattito pubblico, per possa prevedere percorsi specificatamente dedicati ai servizi pubblici: «Essi infatti riguardano temi ed argomenti che fanno parte della vita quotidiana delle persone, con scelte operative e gestionali che hanno un impatto diretto sulla vita dei cittadini. Il pensare strumenti e pratiche privilegiate di dibattito pubblico per questo tipo di servizi può essere percepito come una occasione per costruire relazioni di fiducia e di dialogo con le istituzioni e con gli operatori. È auspicabile che un’eventuale procedura di dibattito pubblico declinata sul mondo dei servizi pubblici locali venga avviata già nelle fasi preliminari di definizione dei progetti, così che gli esiti possano incidere sugli stessi, per migliorarli, qualora la voce dei territori lo dovesse richiedere. Sarebbe inoltre utile ridefinire il bacino territoriale delle comunità coinvolte o chiamate ad esprimersi. È infatti chiaro che il territorio interessato da una certa opera, non coincide necessariamente con il Comune o la località che la ospita. Nel caso dei servizi pubblici locali occorre spostarsi su logiche di bacino territoriale ottimale o ancora di area vasta». E provare così a riequilibrare il costante tensione tra spinte individualiste e attenzione al benessere collettivo.

Occorre però tenere presente un punto che spesso sfugge, in merito ai fenomeni Nimby: nella maggioranza dei casi a guidare il dissenso non ci sono associazioni ambientaliste (succede nel 9,6% dei casi) o la matrice popolare pura (comitati, etc, che arrivano al 34,6%) ma enti pubblici e politica – forti rispettivamente del 26,3% e 25,4% delle contestazioni. Come è possibile ricostruire la fiducia necessaria alle opere pubbliche, quando in primis la politica diserta il suo ruolo-guida nei confronti della società, mettendosi al contrario a traino delle contestazioni senza proporre alternative per uno sviluppo davvero sostenibile?

Dibattere ed ascoltare è necessario, ma poi la democrazia rappresentativa ha il compito di decidere e parlar chiaro: non tutti saranno d’accordo con le scelte prese, ma almeno sarà possibile distinguere con franchezza le parti in campo. E prendere posizione.

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